THE MAGAZINE OF THOUGHTS, DREAMS, IMAGES THAT PASS THROUGH EVERY ART OF DOING, SEEING, DISCOVERING

18 December 2010

Roma, la teca di Richard Meier che racchiude l'Ara Pacis, sommo monumento di romanità, oggi oggetto di costante attacco da parte della giunta capitolina, ed in primo luogo dal nefasto comportamento contro di essa a più riprese perpetrato dal suo primo cittadino (foto di Enrico Mercatali)

UNA GESTIONE DA BORDELLOl'Italia e i suoi beni culturali - l'evento "Dany" all'Ara Pacis


Sopra: ecco come il più prestigioso monumento all'arte scultorea di Roma antica
è stato ridotto a salone di concessionaria automobilistica
Sotto: uno dei numerosi straordinari bassorilievi che ornano la base dell'altare
più importante dell'antichità, d'età imperiale (foto di Enrico Mercatali)


Baipassando in modo discutibile e senza troppa pubblicità i preposti organi di tutela (Sovrintendenza e Assessorati) il sindaco di Roma ha di fatto consentito il progetto "Dany" che l'intraprendente e spregiudicato amico Stefano Maccagnani aveva escogitato quale ennesimo e questa volta davvero micidiale attacco alla cultura del nostro paese. Questo progetto pubblicitario è consistito nell'utilizzare il prestigioso monumento della comunità romana, italiana e mondiale, l'Ara Pacis, a scopo totalmente ed esclusivamente personale. Infatti, nella sua veste di rampante imprenditore di Belumbury, azienda italianissima (nonostante il nome dal sound anglosassone) che produce vetturette "ecologiche", quali la Dany appunto, egli è riuscito a far piazzare due delle sue vetturette all'interno della nuova teca meieriana, proprio davanti al monumento scultoreo che, forse più di ogni altro, rappresenta l'arte romana nel mondo, fatto di bassorilievi marmorei di sublime fattura, capace di attirare flussi turistici ingentissimi, e perciò anche di attivare virtuosi processi economici.

Veduta dell'interno della nuova teca meieriana, voluta dalla giunta veltroniana, uno dei rari esempi di buona architettura moderna capitolina (foto di Enrico Mercatali)

Dopo quanto già era accaduto alla "teca" di Richard Meier (il famoso architetto americano invitato firmatario del progetto romano, nonchè di numerosissimi altri musei nel mondo tra cui il Paul Getty Museum di Los Angeles) non appena Alemanno divenne sindaco di Roma (che trattavasi di una vera e propria promessa di demolizione), dopo quanto appreso dai giornali circa l'avvenuta crescita di parentopoli, attorno alla sua stessa persona, ecco ora questo ennesimo passo falso, capace di denunciarne i gravi limiti di esercizio della sua pubblica funzione, ma anche di una incapacità, tutta italiana, di escogitare i veri problemi che ne attanagliano in questo momento la capacità di crescita.

Continuando di questo passo, credendo di far bene all'economia, ci avviamo a smantellarne i suoi principali pilastri, che sono l'arte di cui è pregna e il turismo che ad essa strettamente si lega

Roma, dicembre 2010

Enrico Mercatali

16 December 2010



Taccuini Internazionali visita il Museo del Novecento di Milano

 
Sopra: L'immenso Spazio-Fontana a doppia altezza, sovrastato dalla grande Struttura al Neon realizzata da Lucio Fontana per lo scalone di ingresso della IX Triennale del 51, e la stupefacente veduta sulla piazza del Duomo. Un'altra curiosità di questa sala è costituita dal controsoffitto in ceramica del livello inferiore, dalle misure eccezionali di 9 metri per 15, che l'artista fece nel 1959 per un albergo a Procchio (isola d'Elba).
Sotto: le bianche strutture della avvolgente spirale in ascesa, che dall'ingresso porta i visitatori alla sommità dell'Arengario, che sembra omaggiare il capolavoro wrightiano del Guggenheim di New York, organismo museale che, per primo nel novecento, concepì l'idea di una unica sala espositiva capace di coivolgere tutto il suo pubblico e le sue collezioni d'arte moderna in un unico abbraccio.




Terminato l'affollamento dei cittadini curiosi della prima settimana dall'apertura abbiamo fatto una visita all'interno del Museo del Novecento, per sperimentarne la sola architettura e gli ambienti, non tanto in relazione alle opere, per le quali faremo una apposita visita dedicandovi anche più tempo, quanto in relazione al suo pubblico e al suo rapporto con la città circostante, vista dall'interno.
Riguardo a questi due temi il Museo regge bene al primo impatto, e sicuramente regala un po' di quell'orgoglio che da tempo mancava ai milanesi, specie se non più appartenenti alle ultimissime generazioni, dei cui gusti e del cui rapporto con la città ancora non bene sappiamo.



 
La passerella che collega l'Arengario con le sale interne a Palazzo Reale è concepita per lasciare ruotare lo sguardo a 360°




 

Siamo stati senz'altro ben impressionati dalla dimensione complessiva del museo, dal fatto che esso non limita i propri spazi al solo edificio dell'Arengario, come pensavamo, ma riversa una buona parte di esso entro i piani superiori dell'ala destra di Palazzo Reale. Una dimensione perciò all'altezza delle collezioni, anche se non proprio di tutte le parti di esse. E' inutile dire come gli spazi più consoni alle diverse fasi ed ai diversi movimenti dell'arte del novecento sono proprio quelli ricavati dalle grandi sale del palazzo piermariniano, quanto meno per altezza dei locali, se non anche per le dimensioni in pianta dei medesimi.

E questo è apparso subito ovvio, per di più, al solo ingresso ed alle sue fasi ch
e subito sono seguite, ovvero rendendosi conto che il grande congegno architettonico della spirale in salita, costituita dalle rampe pedonali fatte per accedere alla partenza della visita al piano superiore, occupa da sola una grande parte del volume dell'edificio portaluppiano, togliendo per converso spazio utile alle prime collezioni prestigiose del primo novecento prebellico.
Una soluzione certo geniale e di grande impatto, questa della spirale ascendente, che sicuramente vuole essere un omaggio all'architettura moderna wrightiana, del Guggenheim New York tanto ne ricorda l'essenza, e che riecheggia la grande, ma assai più ariosa e perfetta spirale ascendente del Reichestag berlinese di Foster, tante per sottolinearne forse ironica
mente una moda. Ma vuole essere anche un "viaggio" d'ascesa anche nel mondo dello spazio quadridimensionale cubista (forse quello descritto perfettamente già nel 1941 da Sigfrid Giedion in "Spazio, tempo, architettura" in una delle prime analisi critiche complete dei prodromi della visione spaziotemporale indotta dalla nuova architettura ottocentesca della parigina torre Eiffel, che avrebbe esercitato la sua influenza sul cubismo, ma prima ancora sul futurismo).


 
Appena terminata la visita alle collezioni anticipatorie del Moderno lo sguardo del visitatore è attratto all'improvviso dall'ampia veduta su Piazzetta Reale che mostra il felice rapporto tra l'architettura piermariniana e il contesto moderno


E' un a "citazione" complessa, un po' compressa, dato lo spazio angusto ne quale vi è stata immessa, ma benvenuta nella "modernità" del progetto rotiano, questa dell'ascesa spiraliforme che accoglie il suo pubblico, proiettandolo negli aspetti più accattivanti della Nuova Arte, che il Novecento dichiara a grandi proclami raccogliendone gli infiniti linguaggi da tutte la precedente arte che l'ottocento già può vantare moderna. E' quindi molto positivo questo primo elemento che Italo Rota e Fabio Fornasari hanno voluto assegnare alla città italiana che ha più di ogni altra ha dato volto al moderno novecentista più storicizzato e storicizzante, a partire del suo Futurismo.



 
Il cavaliere di Marino Marini è il cardine tra le collezioni storiche e le avanguardie dei '60


E' quindi il miglior modo per portare gli spettatori davanti a Boccioni, a Carrà, a Severini, a Balla, e Sirono, a De Chirico. Di quest'ultimo alcuni frammenti della fontana della Triennale vi sono stati infatti apposti alla sua base, visibili dall'alto. Molto interessante anche l'involucro poliedrico in acciaio e vetro che ne costituisce il tamponamento in direzione di piazza del Duomo, il quale riassume tridimensionalmente il motivo decorativo tipicamente portaluppiano dei controsoffitti ai piani dell'edificio, e non poche altre icone della moderna architettura europea del novecento.
Dobbiamo solo lamentare una realizzazione pochissimo curata nel dettaglio, come purtroppo spesso accade in tanti, troppi edifici italiani più recenti, che patiscono la non facile situazione che ha determinato una normativa sugli appalti che poco serve allo scopo di abbassare i costi di costruzione e moltissimo invece a peggiorare la qualità dei prodotti (vedi anche, ci è capitato di constatare, i pessimi risvolti realizzativi dello Scrigno della Pinacoteca di Marella e Giovanni Agnelli al Lingotto di Torino, opera di Renzo Piano, per sottilineare il medesimo fenomeno).

La cosa che più ci ha sconvolto è stato l'inserimento, lungo il percorso della spirale ascendente, in una stanzetta in essa ricavata, tutta nera, dell'enorme tela del Quarto Stato, di Pelizza da Volpedo, opera di enorme significato simbolico e iconico del Novecento, che non ha trovato, in questa soluzione, la sua giusta collocazione. Avremmo preferito, piuttosto, che fosse collocata alla fine, nell'enorme spazio terminale della mostra, in modo da avere una visione in lontananza assai più marcata e necessaria, di quanto non sia stato qui dato.
La stessa cosa dicasi delle collezioni più importanti del Museo, quelle dedicate al
Cubismo, al Futurismo, alle prime opere di Sironi, di Carrà, di Picasso, di Carrà, e poi di Morandi, di Marini, di Usellini. Le sale ad esse dedicate sono anguste, troppo strette, o addirittura piccole nelle tre dimensioni. Questo è poi paradossale scoprendo poi invece che opere assai meno importanti di quelle sono state collocate in locali di grande dimensione ed altezza, quelle di Palazzo Reale.
Viene da chiedersi se non fosse posibile invertire i percorsi, e fare tutto il contrario, dato che, giustamente, il percorso principale del museo segue rigorosamente il criterio cronologico.
Non entriamo certo qui nell'analisi di questo quesito, anche perchè siamo certi che non fosse possibile, ma resta davvero deludente scoprire come alcuni tra i massimi capolavori di Boccioni, o De Chirico non riescano a vivere nel loro spazio ideale, quasi che ancora non abbiano trovato la loro deficitiva collocazione.
Personalmente ritengo che tutto il Museo dovesse essere diluito più verso la sua fine, spostandovi una buona parte di opere della prima parte entro la seconda, caso mai sacrificando un poco le opere di Castellani, Bonalumi, Melotti, Vedova, Schifano, Dorazio, o più ancora quelle di arte "povera", o "programmata", ecc.



 
Una della sale con le "collezioni di mezzo", con Capogrossi, Accardi, Vedova, Parmeggiani, Burri, e tanti altri


Segni del tutto positivi, anzi capaci di suscitare entusiasmo, sono dati, invece, dall'
uso che Rota (con Fabio Fornasari) fa delle quinte perimetrali, dei setti murari presso le vicine architetture limitrofe milanesi, rese visibili, anzi impattanti, da opportuni tagli eseguiti ad hoc in essi con vetrate, o "vetrine" che ne esaltano la visione, a volte anche molto ravicinata, come avviene per San Gottardo, oppure per la Torre Velasca, per la stessa piazzetta Reale e per Piazza Duomo. Davvero geniale tale modo di trattare il rapporto tra l'interno e l'esterno! I percorsi, un poco labirintici e dispersivi, accompagnati dal cigolio continuo delle scale mobili, sono però resi assai piacevoli per le continue sorprese improvvise, costituite dai cannocchiali visivi sulle finestre gotiche del palazzo su via Marconi, o sul palazzo gemello dall'altra parte della stessa via, o sugli scorci sui tetti di Palazzo Reale, o sulle guglie del Duomo, oppure, addirittura, sulla stessa Sala delle Cariatidi.


 
La lunga sala terminale del museo, oggi poco utilizzata, che avrebbe potuto forse meglio collocare alcuni pezzi scultorei, quali le opere di Arturo Martini, Marino Marini, Fausto Melotti, oppure di artisti contemporanei, dalle cui posizioni lungo i percorsi attuali non sembrano aver tratto particolare risalto


Immensa sorpresa infine lo Spazio Fontana, all'ultimo piano, con la grande vista sulla linea luminosa al neon dello stesso artista, opera realizzata nel 1951 per la IX Triennale, visibile la notte, con effetto estremamente scenografico di geniale conio, dalla piazza del Duomo. Un bellissimo spazio, quest'ultimo, destinato all' opera, sì di un grande artista del Novecento, ma forse poco sbilanciato rispetto alle infelici scelte circa il collocamento di opere di pregio assai superiore, quali quelle delle avanguardie storiche, come sopra abbiamo detto, che lascia decisamente perplessi. da questo punto di vista si sollecita un deciso ripensamento che sia capace di assegnare gli spazi migliori alle opere che più ne necessitano, in particolare alle "opere-icona", che peraltro in questo bel museo abbondano.

E' un'opera, quindi complessivamente, questo museo che Milano dedica ai suoi stessi cittadini, ed anche alla sua offerta turistica in grande crescita, che forse costituisce una delle poche voci in crescita che la città possa avanzare a dimostrazione della sua prestigiosa storia in questo avvio di nuovo secolo, dopo i tanti anni trascorsi in cui ha dominato purtroppo "il lungo sonno della cultura milanese".

Milano, 16 dicembre 2010

Enrico Mercatali

(le fotografie sono di Enrico Mercatali)





02 December 2010

Giorgio De Chirico, Piazza Souvenir d'Italie, 1916

Milano, l'Arengario (Portaluppi, Griffini, Magistretti, Muzio), 1936
Lato verso Piazzetta Reale (foto di Enrico Mercatali)
MILANO
ICONOGRAFIA E ICONOCLASTIA
NOVECENTISTA



La imminente apertura al pubblico del Museo del Novecento nel Palazzo Arengario di Piazza Duomo segna una tappa di enorme interesse per Milano e le vicende del novecento che in essa ebbero teatro, specie nella sua versione iconica, rappresentata, da un lato, dall'immagine rinnovata e semplificata della interpretazione d'un classicismo architettonico estremizzato e sintetico, laconico e mordente, spettacolare e complesso anche se apparentemente statico e freddo, ma anche dal multicolorismo futurista dinamico ed "elettrico", dal movimentismo fulgido e complesso della nuova arte che marinettianamente vi nasce proprio in Galleria, in mezzo alla sua folla più convulsa.


Marcello Piacentini, 1938 - Il Palazzo della Civiltà Italiana (Colosseo Quadrato)
foto di Enrico Mercatali
Un'architettura che trae spunto dalle tetre periferie operaie ed un vitalismo estetico, colorato e filmico che nella sua pittura si veste coi panni della ricca borghesia imprenditizia che abita i salotti del centro, formano, agli inizi del secolo XX, l'anima di quella Milano che seppe attraversare le tragedie ideologiche di quel secolo per diventare "da bere", dopo gli anni che dal boom economico la seppero trasformare in capitale mondiale del Made in Italy, città dalle mille facce, ove arte e industria, cinema e moda la resero famosa nel mondo.

Furono gli anni, quelli, dei grandi sogni non più realizzati, nei quali, terrorismo e ruberie, scontri ideologici e poteri occulti fecero in modo che tutto si bloccasse. Per oltre quarant'anni il mito novecentista milanese ha germinato soprattutto all'estero ove divenne faro vitale di modernità.

L'Arengario ha assunto, in questo contesto di contraddizioni e di opposte semantiche, un ruolo del tutto particolare, forse anche proprio per la sua collocazione sulla terza punta di un triangolo equilatero che, agli altri angoli, ha il Duomo e il Palazzo Reale. Il suo aspetto severo e spoglio non è mai stato amato dai milanesi, nonostante che essi avessero già digerito altre cosiddette "brutture", tra cui le più indigeste erano la Stazione Centrale di Stacchini e il Palazzo di Giustizia di Piacentini.

Dall'alto: Giovanni Muzio Palazzo della Triennale, 1933 (foto storica),
Palazzo Triennale oggi con la fontana di De Chirico, la Cà Brutta, 1922 (particolare)


Non a caso ancora alla fine degli anni ottanta, proprio nel bel mezzo del periodo milanese più opulento che si chiamo "da bere", Enzo Mari ne propose la demolizione, anzi, ancor peggio, ne propose, in uno dei suoi più brutti progetti, un assai timido "dileggio", demolendone una parte, e trasformando quella restante in una "fettina di torta" che poco sapeva ironizzare, almeno quanto avrebbe fatto il meglio di Bob Venturi, o chi da lui avrebbe sposato le tesi di "Complexity and Contraddiction", seguendone la conseguente "Strada Novissima".




Enzo Mari, plastici e disegni del progetto per piazza del Duomo
(da "Tre Piazze del Duomo" per il recupero e valorizzazione dell'area Duomo-Scala, Arcadia edizioni, 1984)
In questo progetto, uno dei più brutti a firma del designer milanese, si propone la quasi totale demolizione dell'Arengario. Di esso ne sarebbe rimasto in piedi un "simulacro", di tale misera entità in quel contesto, da farne preferire,piuttosto, la sua totale demolizione, la quale a quell'epoca, era ancora da molti auspicata.

Quel progetto ha saputo però rappresentare la testimonianza del disgusto che i milanesi provavano per quell'edificio che, indipendentemente dalle sue "storicità" non ancora totalmente disvelate, non sapeva rendere giustizia al Duomo e all'edificio che il Piermarini fece accanto ad esso per dare ospitalità ai reali in visita nella città.

Eppure De Chirico aveva già da tempo affrontato il tema delle Piazze d'Italia, ed il Colosseo Quadrato era già stato assunto quale "registro" d'una modernità tipicamente italiana, un po' perchè divenuta, per molti, "mussoliniana" nello stile, ma anche perchè oggettivamente ed espressamente mediterranea e solare, nel bianco dei suoi marmi latini, nella pulizia dei lineamenti architettonici, e in una marcatura delle ombre che così netta e meridiana non poteva essere.

Giorgio De Chirico, Piazza d'Italia, 1938

Richiamandosi a De Chirico, Aldo Rossi ne andava consolidando iconicamente, in quegli anni, una nuova consapevolezza collettiva, un modo di riconoscersi e di specchiarsi di tutti nelle proprie origini, in una sorta di memoria collettiva fatta di classicità sospesa e interiorizzata, che della piena solarità romana e mediterranea poco esprimeva però, al Cimitero di Modena o Gallaratese di Milano, più propenso, specie quest'ultimo, ad un periferico sironiano grigiore.



Aldo Rossi, due progetti realizzati, ispirati alla metafisica dechirichiana:
Sopra: stecca residenziale a Milano (Quartiere Gallaratese), 1962 (foto G.Basilico)
Sotto: Cimitero San Cataldo di Modena, 1971

Perfino nel design ci fu un richiamo, da parte d'alcuni, in quegli anni, nella consapevolezza d'un consolidamento ormai avvenuto e maturo, a quelli che già Portaluppi assai sapientemente organizzava nei decori delle abitazioni borghesi, e negli arredi detti "novecentisti" appunto, per il richiamo a quello stile.

Milano, di quei sintagmi, ne è davvero colma. Basterebbe fare un giro nel suo centro, visitandovi i dintorni di piazza San Babila, per visitarvi l'opera di Portaluppi, appunto, o di Giovanni Muzio, da porta Venezia e porta Nuova, fino allo stesso Palazzo della Triennale.

Oggi vediamo tutti con nuovi occhi quell'Arengario che Mari voleva demolire, e al cui solo progetto di demolizione, in fondo, molti plaudivano. Oggi siamo tutti consci che sia stato un bene tenerlo in piedi per fargli rivivere le passate glorie, per renderlo contenitore perfetto d'una storia del Novecento piena di spigolosità e di bellezze, contraddizioni e splendori. Anche se, dobbiamo riconoscere, che il suo restare in piedi non è stato frutto d'una scelta ponderata e saggia, ma solo d'un altro brutto affaire all'Italiana, costituito dal blocco d'ogni iniziativa urbanistica ed edilizia dovuto a Tangentopoli, che tutte le risorse divorava nel privato, non lasciando che briciole alle publiche realizzazioni che, per questo, mai presero il volo.


Anche il design coglie i frammenti d'una tendenza proponendoli al pubblico più vasto:
Enrico Mercatali, "Novecento" - Tavolo scomponibile per Fasem International, 1990,
in legno rifinito "alphatone" in diversi colori e cristallo molato in due strati e pvb
(omaggio al novecentismo prebellico, costruito sui segni d'una tutta milanese romanità, rinato negli interessi
antiquari degli anni '80, testimoniato dai numerosi nuovi sfarzosi negozi d'arredo novecento in città)


L'Arengario oggi non si chiamerà più così e si chiamerà invece "Museo del Novecento". Esso oggi risplende di una nuova luce e potrà ben rappresentare la città di Milano nel mondo, accanto al Duomo e a quel Palazzo Reale che continuerà ad ospitare, come ha già ospitato, mostre temporanee d'alto profilo.
Questo sia d'auspicio per una rapida soluzione anche ad un altro problema annoso della città, riguardante la "Grande Brera", nella quale tutti avremmo voluto tempo fa che si desse il via al bellissimo progetto di James Sterling, pensata e voluta dal rimpianto sovrintendente Franco Russoli nei lontani anni '60.
Ma, con il progetto di Rota per il Museo Novecento (e non certo coi tanti altri altisonanti e sbagliati progetti, tuttora in corso di realizzazione a Milano, quali Milano City o Museo della Moda, Milano sembra riprendere le fila d'un discorso lineare e virtuoso. In questo progetto Rota ha pensato alla città rileggendone col cuore la sua fantastica storia fatta dei momenti epici del moderno che l'hanno plasmata. Così egli ha pensato alla creazione d'un Novecento che comprendesse le esperienze principali della sua costruzione fisica e della sua identità, durante il XX secolo: così egli ha intersecato, entro l'involucro portaluppiano, le visuali che comprendessero le iconiche opere che vi sono custodite all'interno con le parti di città che segnano la sua storia, che dall'interno dei suoi spazi potessero essere viste, dal campanile di San Gottardo alla Torre Velasca, dalla bramantesca San Satiro al primo edificio brutalista di Figini e Pollini, che vi prospetta sul fianco. In tal modo egli ha voluto che l'esperienza d'un novecento agli albori comprendesse quella della città fatta dei suoi passaggi migliori, ovvero dei più visionari, attraverso i quali si leggesse l'essenza d'una città che ha conosciuto, e forse ancora conosce, il profondo senso di una progettualità capace, nel suo farsi, di tessere sempre un'idea di futuro.

Milano, 3 dicembre 2010

Enrico Mercatali

01 December 2010

MUSEO NOVECENTO - dal 6/10/2011


Si inaugura a Milano il
Museo del Novecento
Piazza Duomo
Apertura al pubblico il 6 dicembre 2010


Umberto Boccioni
Forme uniche di continuità dello spazi0, 1913, simbolo stesso del nuovo Museo del Novecento.
Questa scultura riassume in sè tutti i caratteri marinettiani della nuova arte futurista.
Una analoga versione è esposta al Mo.Ma di New Your

Si inaugura il 6 dicembre 2010 a Milano il Museo del Novecento, per il quale da anni lavorano diverse equipe di specialisti ed architetti.


Italo Rota, Museo del Novecento, Arengario Milano
Schizzo sintetico-concettuale che ne rappresenta le volontà progettuali

E' da oltre cinquant'anni che si parla a Milano d'un nuovo museo del '900, per collocarvi le collezioni già appartenenti al Museo d'arte Moderna, che, provvisoriamente, soggiornava nella Villa Reale di via Palestro, nonchè le collezioni private passate al Comune a seguito di importanti lasciti privati. Con esso anche da sempre si parla d'un museo d'arte contemporanea, che, in una città come Milano, non doveva mancare. Mentre di quest'ultimo poco ancora si sà, se non che la collocazione dovrebbe essere nell'area ex Fiera Campionaria di Milano City, il Museo del Novecento è finalmente decollato e siamo alle soglie della sua apertura ufficiale. Il programma dell'iniziativa, fin dal suo nascere, è stato quello di diffondere la conoscenza dell’arte del Novecento in modo da offrire al pubblico una molteplicità di punti di vista e possibilità di apprendere capacità critica. Inoltre esso è nato per la necessità di conservare, studiare e promuovere l'ampio patrimonio pubblico esistente in Milano attinente la cultura artistica del XX secolo, attraverso attività ricerca ed attività didattiche. Una pluralità di modi d'approccio è stata scelta quale modo per favorire interculturaleità e coinvolgimento d'un pubblico con ampio spettro di interessi, che spazia dagli addetti ai lavori, ai bambini, al turista frettoloso di passaggio.

Amedeo Modigliani, Ritratto di Paul Guillaum, 1916

Il museo, presso il Palazzo dell'Arengario, i cui lavori di restauro sono finiti proprio in questi giorni, mostrerà al pubblico più di quattrocento opere selezionate tra le quasi quattromila dedicate all'arte italiana del XX secolo, proprietà delle Civiche Raccolte d'Arte milanesi. Una parte del patrimonio appartiene a Casa Museo Boschi Di Stefano, che ha ospitato un nucleo della donazione dei collezionisti Antonio Boschi e Marieda Di Stefano.

Due icone milanesi a confronto:
Arengario (oggi sede del Museo Novecento - 1936 Piero Portaluppi,
Enrico Griffini, Piergiulio Magistretti, Giovanni Muzio)
e Torre Velasca (1956, B.B.P.R.)

L'ordinamento della collezione destinata al museo è stata oggetto di studio da parte del comitato scientifico, composto da Massimo Accarisi, direttore Centrale Cultura, Claudio Salsi, direttore Settore Musei, Marina Pugliese, direttore del Progetto, Lucia Matino, ex-direttore delle Civiche Raccolte d'Arte, Piergiovanni Castagnoli, ex-direttore della Galleria d'Arte Moderna di Torino, Flavio Fergonzi e Antonello Negri, docenti di storia dell'arte contemporanea rispettivamente presso l'Università degli Studi di Udine e l'Università degli Studi di Milano e da Vicente Todolì, direttore del museo Tate Modern di Londra.

Umberto Boccioni, Rissa in Galleria, 1910 (già collezione Jesi)

Il modello di allestimento e di sequenza cronologica delle opere scelte per il Museo del Novecento dalle grandi collezioni civiche parte dai suoi punti di forza: Futurismo, Novecento, Spazialismo, Arte Povera, e personalità artistiche di spicco come Boccioni, Carrà, Soffici, de Chirico, Sironi, Martini, Morandi, Fontana, Manzoni, Kounellis e molti altri.

Il Museo del Novecento si propone inoltre come vetrina per gli artisti oggi attivi nel territorio nazionale, in un rapporto di continuità con il futuro museo di arte contemporanea, che avrà invece, quando vi sarà, un respiro internazionale.
Sarà riservata un'attenzione particolare all'attività di ricerca per la tutela e la conservazione del patrimonio d'arte del secolo XX e di quella attuale, con uno specifico interesse per le nuove pratiche artistiche.

Milano, l'Arengario visto dalla piazzetta Reale, visione notturna.
"Sarà l'arte, e non il palazzo, a comunicare già all'esterno ciò che vi si vedrà all'interno": così spiega Italo Rota,
illustrando il suo progetto. Infatti, attraverso le grandi vetrate, già da Piazza del Duomo si vedranno i neon di Fontana
e "Il Quarto Stato" di Pelizza da Volpedo

La collezione della Galleria d'Arte Moderna di Milano ebbe origine dalle cospicue donazioni di cittadini benemeriti che destinarono ai Musei Civici le proprie raccolte artistiche. Nel 1903 la Galleria d'Arte Moderna fu istituita quale luogo destinato ad accogliere le ormai ricche raccolte d'arte contemporanea. La prima sede di questa collezione fu la Sala della Balla al Castello Sforzesco e solo nel 1921 la raccolta fu trasferita presso la Villa Reale di via Palestro, ceduta al Comune dalla casa regnante l'anno precedente. Nel 1954 fu inaugurato il Padiglione d'Arte Contemporanea, progettato da Ignazio Gardella. La struttura, pur pregevole e all'avanguardia, si dimostrò ben presto più adatta ad ospitare mostre temporanee che non il museo d'arte contemporanea fino ad allora tanto ambito. Solo con il progetto del futuro CIMAC (Civico Museo d'Arte Contemporanea) voluto dalla direttrice Mercedes Garberi, si inziò a pensare ad una sede specifica per le collezioni.
Il CIMAC fu infatti aperto in una sede provvisoria al secondo piano di Palazzo Reale nel 1984. Nel 1998 venne chiuso a causa dei lavori per il restauro del palazzo.

Manifesto di una mostra su Marinetti e il Futurismo tenutasi al Palazzo delle Stelline nel 2009

Il museo vuole proporsi come istituto culturale d'eccellenza per la ricerca, la comprensione e l'approfondimento dei fenomeni artistici, delle forme e dei linguaggi del secolo appena concluso. A tale riguardo l'Archivio del Novecento sarà preposto alla conservazione e consultazione di fondi archivistici e di grafica prodotti nel corso del secolo, della documentazione relativa alle collezioni del museo e alle relazioni delle Civiche Raccolte d'Arte con altre istituzioni cittadine nel corso del Novecento.

Interno del palazzo dell'Arengario, completamente svuotato durante i lavori per il nuovo Museo del Novecento.
Dice l'Architetto Italo Rota che questo museo è stato reso possibile proprio dal fatto che nel 1936 si sono interrotti
i lavori di costruzione interni al palazzo, e che questi non sono mai più stati ripresi, lasciandone così vuoto l'involucro.

L'archivio, collocato nei locali del secondo piano di Palazzo Reale che si affacciano su via Rastrelli e con un ingresso indipendente rispetto al museo, avrà a disposizione due zone: un'ampia sala di consultazione ed esposizione di materiale grafico e due ambienti destinati a deposito.
Saranno consultabili alcuni materiali relativi alle collezioni del Novecento copiati dall'Archivio dei Musei artistico e archeologico municipali di Milano e altri fondi, tra cui:
Archivio Bisi Fabbri, Fondo Marinetti, PiazzoniLettere di Marinetti, Collezione Cangiullo.

Carlo Carrà, "Il cavaliere rosso", 1913, già appartenuto alla Collezione Jucker

La trasformazione del Palazzo dell'Arengario in Museo del Novecento, a cura di Italo Rota e Fabio Fornasari, si pone quale obiettivo fondamentale l'organizzazione all'interno del contenitore storico di un sistema museale semplice e lineare, che permetta di ottimizzare l'utilizzo degli spazi a disposizione e di restituire un'immagine forte e attraente all'edificio e alla nuova istituzione, così da trasformarlo in uno dei luoghi privilegiati della cultura a Milano. Nello spazio verticale della torre, è stato inserito un sistema di risalita verticale con una rampa a spirale che dal livello della metropolitana raggiunge la terrazza panoramica affacciata su piazza Duomo. Lo scalone, la terrazza e lo splendido balcone coperto faranno parte di un percorso che offre su Piazza Duomo una visione particolare ai milanesi e ai turisti. L'edificio dell'Arengario è stato collegato direttamente al secondo piano di Palazzo Reale tramite una passerella sospesa. Questo "pontile", discreto e minimale non è semplicemente un ponte tra due edifici, ma anche un modo di scoprire l'affascinante stratificazione storica dei palazzi dell'area compresa tra via Rastrelli e piazza Diaz.

L'intervento per la realizzazione del Museo del Novecento ha comportato la demolizione dei volumi interni dell'Arengario, e la conservazione delle facciate esistenti che sono state restaurate.
Gli scavi, eseguiti per poter ricostruire i nuovi volumi previsti nell'area del cortile interno, hanno portato alla luce numerosi manufatti di epoca medievale e romana. La Soprintendenza per i Beni Archeologici ha provveduto al rilievo dei reperti storici, alcuni dei quali saranno restaurati e riproposti all'interno del museo.

Rendering di progetto di Palazzo Arengario divenuto Museo Novecento: Le luci e le immagini che dal suo interno emergono sulla piazza già informano circa lo "spirito del tempo" che in esso si fa teatro: tutta la "Milanesità del Futurismo" già in esso si esprime.

Nello spazio vuoto all'interno dell'edificio sono state costruite le strutture orizzontali e verticali che definiscono il percorso museale. I collegamenti verticali sono stati realizzati con impianti elevatori, scale mobili e una rampa di forma elicoidale, contornata da una vetrata curvilinea, che caratterizza la parte di edificio prospiciente piazza Duomo.
Una particolarità dell'intervento è il ripristino del collegamento interrato già esistente, che permetterà di raggiungere il museo direttamente dalla metropolitana.

Il manifesto della mostra tenutasi a Palazzo Reale tra febbraio e giugno 2009:
"Futurismo 1909-2009" in occasione del centenario. In esso si illustra di Umberto Boccioni, "Elasticita", del 1912



Gli orari di apertura al pubblico del Museo sono i seguenti:


LUNEDI 14.30 - 19.30, MARTEDI,MERCOLEDI,VENERDI,DOMENICA 9.30 - 19.30GIOVEDI - SABATO 9.30 - 22.30Dal 7 dicembre 2010 al 28.2.2011 l’ingresso è gratuito.Nei giorni 7 e 8 dicembre 2010 il Museo resterà aperto dalle 9.30 alle 19.30.Durante le festività natalizie il Museo si atterrà ai seguenti orari di apertura:24 DICEMBRE 9.30 - 14.00, 25 DICEMBRE 14.30 - 22.30, 26 DICEMBRE 9.30 - 19.3031 DICEMBRE 9.30 - 14.00, 1 GENNAIO 14.30 - 22.30, 6 GENNAIO 9.30 - 22.30

Milano, 1 dicembre 2010
Enrico Mercatali






21 November 2010


Il padre della Pop coi suoi "Gluts" in Villa Panza (Varese),
realizzati a vent'anni di distanza dai mitici anni sessanta di
"New York Arte e Persone"




A Villa Panza (Varese) i "Gluts" di Robert Rauschemberg contrastano non poco con il perfetto equilibrio tra gli eleganti ambienti sette-ottocenteschi della casa e i pezzi d'arte moderna della collezione permanente che il suo raffinato e colto proprietario (il Conte Giuseppe Panza di Biumo, recentemente scomparso dopo aver lasciato al FAI la proprietà della Villa e le sue ingenti collezioni d'arte) vi ha assai sapientemente collocato.


I Gluts (letteralmente: gli eccessi) sono composizioni di tipo estemporaneo realizzate con pezzi di lamiera, insegne o altre parti in ferro derivanti da prodotti rottamati, tratti dalle discariche che il suo autore amava visitare nei pressi del suo studio in Florida. Nulla a che vedere con i dissacranti recuperi dei Ready Made duchampiani, che ne sapevano oggettivare l'assoluto della forma in sè, oltre all'oggetto d'uso, nè tanto meno delle delicate ricomposizioni armaniane fatte di vecchi violini o altri oggetti maniacalmente sezionati con estrema precisione. Ma soprattutto, e specialmente, nulla a che vedere con l'ammasso di lamiere d'auto dismesse che John Chamberlain esibiva nelle prime mostre della Pop già negli anni '60.


Ma nulla a che fare anche con quel Rauschemberg, padre e vate della Pop di "Arte e Persone", che Ugo Mulas immortalava nelle sue splendide fotografie scattate all'interno degli studi degli artisti, mentre gli artisti stessi erano "all'opera", colti nel momento in cui stavano creando lo spirito dell'arte che meglio d'ogni altra avrebbe interpretato l'età mass-mediatica dei consumi di massa, nel cuore del XX secolo, secolo della modernità.


Questo nuovo Rauschemberg, che Giuseppe Panza di Biumo ha voluto presente nella sua importante collezione, e che ora riempie alcune sale della Villa con una mostra itinerante con quasi cinquanta opere, "compone" equilibri spaziali mediante la giustapposizione di ritagli di vecchie lamiere e con pezzi d'insegne ed altri oggetti della rottamazione, ottenendone oggetti a sè stanti. Non cè più nulla di provocatorio in queste composizioni, nè nulla di scontato. Esse sono, e basta.


Esistono in quanto tali, e la loro estetica deve essere ricercata nella pura loro composizione spaziale. Ovvero possono piacere o non piacere, ma nessun filosofare è possibile attorno ad esse, circa la materia primigenia che le ha costituite, e nessuna provocazione vi viene consumata, così come nessuna operazione dissacratoria.


Appare perfino esagerato il titolo "Gluts" in tale contesto privo di spigolature, nè di paradossi, e tanto meno d'ironie di sorta. Tutto al loro interno vi è scontato tanto che ogni tipo di mordente che potesse scorgersi nei loro antefatti, qui vi tace. E direi vi muore, assieme alla monotonia che ci assale nel passaggio tra un'opera e l'altra. E' ancora, e soltanto, dal confronto con la villa, e la storicità dei suoi ambienti, che nascono le ultime residue vibrazioni sensoriali, che queste opere sanno suscitare.


E dalla Villa che esse ancora sanno trarre qualche beneficio, in quanto espressione di antagonismi stilemici e formali ancora discretamente funzionanti al momento della loro fruizione. Ma rimane un fatto mentale e basta, perchè i Rauschemberg sono collocati in parte entro le vecchie scuderie, ed in parte negli ambienti del primo piano della villa, e pertanto esse non colloquiano mai con le altre opere selezionate dal Conte Panza, ma solo con gli ambienti della casa. Il contrasto c'è, ed è salutare, ma non è mai abbastanza potente come potrebbe essere con le opere di Robert Irwin o Maria Nordman o Dan Flavin, scelte tra le più minimaliste dei minimalismi, secondo il gusto del suo proprietario e mecenate, fatto di totale eleganza e discrezione, di contrasti perpetrati all'insegna del garbo e della discrezione.

Questa sopra e quelle che seguono sono immagini che si riferiscono alle istallazioni al neon di Dan Flavin (artista minimalista newyorchese tra gli anni '70 e '80), facenti parte della collezione permanente di Villa Panza di Biumo a Varese


Assai più vitali rendimenti, in termini d'immagine e di peso artistico, hanno questi numerosi pezzi che compongono nella Villa di Varese le collezioni permanenti. Sono esse emerse alla ribalta internazionale probabilmente in funzione della Villa, per quella eccelsa e raffinata destinazione, che ha fatto sì che fossero soprattutto i colori, la loro iridescenza mutevole, prima ancora che la concezione che li ha determinati, a dare loro i natali.


Oggi la loro valenza è intrinseca al contenitore, col quale colloquiano senza integrarsi, e mai e poi mai potrebbero sopravvivere se non lì dove vi sono collocate. A volte esse sono capaci di risvegliare gli stessi oggetti e gli arredi classici della casa, la cui sobrietà, investita da monocromie fatte di accesi accostamenti che alimentano il gusto per le cose raffinate ed eleganti, vive di quelle.


Rauschemberg, l'ultimo Rauschemberg che vediamo in questa mostra, non vale davvero l'assieme, l'accoppiata Villa Panza-Arte minimalista, distaccandosene come se non vi c'entrasse per nulla. Il tramonto, perciò, di un artista che ha fatto la Pop, e che non ha saputo distaccarsene totalmente quando si è reso necessario. Analoga vicenda, del resto, ha vissuto l'arte di un altro padre della Pop, di Roy Lichtenstein, recentemente incontrato alla Triennale di Milano, con una sua grande mostra. E' il destino di tanti grandi dell'arte che hanno vissuto per anni dentro al mito, per poi non saperne più uscire al momento giusto. Nessuno di essi se ne è salvato. Sono stati capaci di dare di sè, alla fine della loro carriera, esattamente, l'idea del declino.

Varese, novembre 2010

Enrico Mercatali


15 November 2010

Michele De Lucchi scultore. Little exihibitions are sometimes very big tresours. Little sculptures and drawings by Michele De Lucchi



MICHELE DE LUCCHI SCULTORE

 A VILLA SORANZO DI VARALLO POMBIA
MICHELE DE LUCCHI PRESENTA LE SUE RECENTISSIME
PALAFITTE




Partendo da un'ispirazione nata nel Parco dei Lagoni l'architetto milanese, trapiantatosi ad Angera con la sua residenza 
e il suo laboratorio privato, ha incominciato a reinventare l'abitazione dell'uomo a partire dalle forme più semplici, 
utilizzando il legno quale malleabile materiale primordiale che lo lega strettamente all'ambiente naturale nel quale vive.


La mostra "Costruzioni della terra e dell'acqua", dal 5 novembre al 5 dicembre 2010, è stata ideata da Michele De Lucchi, realizzata dallo staff della Pinacoteca "Cesare Belossi" ed organizzata dall'Arch. Rancan e dall'esperta d'arte Moregola.

 

Nella bella Villa Soranzo di Varallo Pombia l'architetto Michele De Lucchi mette in mostra le sue ultime creazioni, realizzate negli spazi privati della sua abitazione di Angera nei momenti di tempo libero, ovvero al di fuori dagli impegni professionali che lo hanno legato in passato e che lo legano oggi all'impegno di grande costruttore di oggetti urbani alla grande scala, nei recenti impegni georgiani a contatto con il suo presidente col quale ha stretto una solida amicizia.

Michele De Lucchi nel suo laboratorio di Angera-Lago Maggiore

 

Sono, queste creazioni entro il "Chioso" (il nome che ha dato al suo ritiro d'Angera), il luogo ove emerge forse maggiormente la sua vena più autentica e spontanea di creatore di forme e di spazi, e il momento più poetico che vive plasmando personalmente la materia che lì vi abbonda, il legno. Quasi tutto il suo lavoro, compreso quello professionale, tende a dimostrare che il suo talento propende per le forme nello spazio, più che per le forme dello spazio, ovvero che egli predilige la scultura allo spazio interno dell'architettura, che egli pensa l'architettura in termini eminentemente di scultura, sia che stia trattando un grande edificio, un ponte, un oggetto di design oppure una piccola casa. Non è un caso che perfino nell'allestimento della grande mostra tutt'ora in corso a Venezia, sulla figura del Piranesi, emerge potente una grande "torre", assai simile concettualmente alle piccole palafitte qui registrate a Varallo Pombia, nella quale vengono proiettate interessantissimi filmati che riproducono digitalmente gli spazi piranesiani a partire dai disegni sull'antica Roma.


Il grande spazio-laboratorio del "Chioso" di De Lucchi in Angera-Lago Maggiore

 

Nel clima da bottega che si respira entro gli ambienti del suo studio d'Angera, nella cornice naturale entro la quale i semplici ma ampi spazi si collocano nei momenti di maggiore sua tranquillità, tra un lavoro importante e l'altro che lo impegna la sua condizione di archistar (titolo dal quale forse preferirebbe rifuggire), Michele De Lucchi ripercorre ed affina processi creativi primigeni, richiamandosi alle forme primordiali della semplice capanna, della palafitta, del puro rifugio dalle avversità naturali più estreme, disegnandone gli schemi basilari in più varianti, in primo luogo, per poi passare alla loro realizzazione diretta, in modelli di piccola scala, lavorando il legno col cesello, ma anche con la motosega, partendo dal pezzi più grezzi per arrivare , ma solo a volte, alla levigatura perfetta dei dettagli, passando dagli incastri tra le parti alla semplice giustapposizione legata con i perni, essi stessi fatti dello stesso materiale.A volte invece il pezzo di legno è così grande da poterne eseguire, direttamente in esso, il modello d'un intero grattacielo, nella scala più appropriata per dare ad esso una funzione simulativa. Altre volte, invece, preferisce procedere, pezzo per pezzo, alla realizzazione di una struttura fatta di parti, per mostrarne il tipo costruttivo, più che l'ordine morfologico. In taluni casi ne lascia ruvida la superficie, come se ciò potesse simulare materiali anche moderni, quali i rivestimenti in lastre di rame o di zinco-titanio.


 
Altre volte ne leviga a tal punto la superficie da far simulare nella maquette un gran palazzo in scala, oppure un vaso a grandezza naturale o un altro oggetto di design, una scultura fine a se stessa.
Questo gioco di scale, tanto importante quando il problema architettonico diventa un fatto tecnico, non assume più alcuna importanza quando invece, come in questo caso, il vero scopo è quello di sperimentare nuovi linguaggi, quello di ricercare effetti plastici, di provare forme di poesia, di inventare nuove emozioni estetiche.




 

Ho visto oggi la piccola e bellissima mostra di Varallo Pombia, che desidero recensire, e documentare fotograficamente, per dimostrare che non occorrono grandisimi mezzi o capitali per ottenere qualità ed interesse. E visito solo pochi giorni dopo un'altra mostra da De Lucchi ideata ed allestita: la grande mostra su Piranesi, realizzata in concomitanza con la Biennale Architettura presso la Fondazione Cini a Venezia, all'isola di San Giorgio. Due mostre opposte per concezione e per i mezzi messi in campo, ma analoghe per qualità ed interesse, entrambe assolutamente perfette nella concezione d'assieme che è stata loro assegnata in relazione al rapporto tra involucro e contenuto.



 

La prima è una piccolissima mostra di piccole e piccolissime sculture e disegni, realizzati da poco del suo autore. La seconda è già stata definita da molti critici quale la miglior mostra che mai sia stata fatta sull'opera del Piranesi.

Varallo Pombia, ottobre 2010

Enrico Mercatali 

(Tutte le fotografie sono di Enrico Mercatali, con la sola esclusione di quelle scattate ad Angera)