THE MAGAZINE OF THOUGHTS, DREAMS, IMAGES THAT PASS THROUGH EVERY ART OF DOING, SEEING, DISCOVERING

27 March 2014





P I E R O    M A N Z O N I

Disinvolto  confezionatore  di idee,
anticipatore d'una estetica di massa
per una cultura visiva pret-à-porter




Dall'Orinatoio alla Merda d'artista, sembra che le grandi intuizioni del XX secolo artistico debbano criticamente passare dall'incontro con ogni genere di deiezione umana.
Del 1917 è l'intuizione matafisica di Marcel Duchamp, mentre di ben 44 anni più tarda è quella, sostanziante e pragmatica, di Piero Manzoni, che data 1961. Di quell'orinatoio e questa merda sono piene le pagine più acute dei libri che discettano d'arte del Novecento, e che da essi traggono ampi spunti di riflessione.





Quel ready-made inaugura la stagione della modernità, ai suoi esordi, fatta d'altro che non fosse solo pittura e scultura, ed il filosofo-artista che ne è stato l'autore ha creato immediato scandalo quando l'ha presentato per la prima volta al pubblico. Ma anche, oltre allo scandalo, una grande messe di approfondimenti critici, di dotte osservazioni ed altrettanto complesse considerazioni hanno fatto di esso, nel tempo a seguire, il simbolo di una vera e propria rivoluzione dell'estetica convenzionale che ha saputo capovolgere, in ogni angolo d'Europa, l'idea stessa d'arte, promuovendola ad una componente del pensiero, oltre che dell'espressione umana. Si trattava di considerare potenziale artistico, da allora in poi, non solamente un oggetto pittorico, o di scultura, una libera interpretazione soggettiva della realtà rappresentata su una tela o in un supporto tridimensionale. Ma la merda d'artista inscatolata, invece, da il via ad un'arte che vede e concettualizza le grandi trasformazioni del moderno ciclo produttivo e consumistico della società massificata, quella che apre la strada alle fruizioni di massa, quella della produzione serializzata e standardizzata, quella che valorizza il marchio di fabbrica, quella che è attenta al packeging del prodotto e che ne esalta la firma, quella che incomincia a comporre i fattori d'una teoria della comunicazione.



Marcel Duchamp e Piero Manzoni, pur così lontani nel tempo, hanno entrambe accentato il significato della loro arte ironizzando su soggetti a tutti comprensibili, tanto da esserlo perfino a dei bambini, e con essi hanno volutamentre dato "scandalo" così che, scuotendo il comune senso del pudore, essi potessero comunicare col mondo intero,  spalancando le porte di mondi tutti ancora da esplorare, compresa la stessa nascente teoria della comunicazione, la quale, con il "Medium è il messaggio" di Marshall McLuhan e Quentin Fiore, qualche anno dopo, nel 1967, ebbe la sua massima teorizzazione.




In questo sono entrambi considerati genii, e non solo dalla critica, ma dallo stesso pubblico che ne intuisce perfettamente la dirompente talentuosità. E se Marcel Dichamp, negli stessi anni, proponeva una versione popolare e addomesticata della leonardesca Mona Lisa, con tanto di baffi e di barbetta disegnasti sopra al volto, anche Piero Manzoni non è da meno quando spoglia una giovane donna e ne firma il corpo, apponendo la propria sigla d'artista sulla bianca natica, con tanto di data, quasi fosse esso una propria opera d'arte vivente. Mondi tanto simili tra loro, i due, quanto lontani e staccati i rispettivi significati.





Se quello di Duchamp ha avuto una altissima considerazione da parte dei massimi studiosi sia dell'arte che della filosofia che del costume, è invece più recente il riconoscimento attribuito a Manzoni d'una posizione tanto alta e significativa nella storia dell'arte, almeno tanto quanto quella del Maestro francese. E' ciò vale soprattutto oggi, che riusciamo a vedere tutto il percorso dell'evoluzione artistica dopo di lui, e che sappiamo quanto da lui abbiano attinto gli artisti della Pop, quelli dell'Arte Povera, i Maestri della Body Art fino ai Concettualisti. Tanto ha potuto fare Piero Manzoni, in quei 30 anni di vita che ha vissuto, tanta è stata la sua forza inventiva scaturita dalla incessante curiosità che l'ha alimentata.




La sua città di Milano è in ritardo ora di un anno, sul doppio anniversario (80 anni dalla nascita e 50 dalla morte), per commemorarne il nome con la grande mostra che, dopo lunga gestazione, finalmente è riuscita a dedicargli. Si è aperta da un giorno a Palazzo Reale la sua prima grande retrospettiva, con un centinaio di opere che ne documentano l'eccezionale creatività, e soprattutto la straordinaria capacità di vedere oltre, e di immaginare il futuro della società nella quale, sia pur così brevemente ma intensamente, egli ha vissuto.





La retrospettiva milanese di Palazzo Reale sull'opera di Piero Manzoni, consistente in un centinaio di opere, curata da Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo, durerà fino al prossimo 2 giugno. Il catalogo è di Skira. Un gadget al book shop: "Merda d'Artista" in doppia razione, una riproduzione perfetta della famosa scatoletta ideata nel 1961 e il libro, scritto dallo stesso curatore della mostra Flaminio Gualdoni, intitolato "Breve storia della merda d'artista".


Enrico Mercatali
Milano, 26 marzo 2014

10 March 2014

Chiude la grande retrospettiva di Andée Le Notre a Versailles-Chateau: una aggiornata lettura della sua arte l'ha unita al National September 11 Memorial (di Enrico Mercatali)




L'arte di Andrée Le Notre e il National September 11 Memorial, attraversando le pagine di "Space Time and Architecture" di Sigfried Giedion,  uniti da un filo comune che li lega, suggeriscono una lettura critica che definisce senza equivoci cosa sia lo spazio moderno.




Andrée Le Notre 
 e l'11 September National Memorial


Nella grande retrospettiva di Versailles-Chateau 2013
si è consacrato il più grande dei giardinieri
 quale sommo anticipatore di modernità attraverso una sapiente fusione di ingegneria, scienza e arte



Sopra al titolo: recente fotografia assiale del Grand Canal e del Bacino di Apollo, nella prospettiva principale del Giardino di Versaille-Chateau, realizzata su progetto di Andrée Le Notre a partire dal 1662. Sotto al titolo: Uno dei due bacini della sistemazione odierna dell' 11 September Memorial sull'area dell' Worl Trade Centre, realizzata su progetto di Peter Walker Partners, completata nel 2011-12 (foto presente alla mostra parigina  su Andrée Le Notre).



I TACCUINI INTERNAZIONALI si sono interessati agli eventi parigini del tricentenario della morte di Andrée Le Notre per due motivi principalmente: il primo riguarda una tematica ampiamente improntata agli aspetti dell'architettura verde, ossia a quell'arte che coniuga l'interesse per la componente verde del territorio con quello della sua costruzione, ovvero dell'architettura che da essa ne può scaturire. Sono tematiche, queste, ampiamente ed autorevolmente rappresentate anche nel nostro territorio, nei numerosi esempi specifici che la storia dell'architettura dei giardini annovera in esso, particolarmente interessanti i secoli XVI e XVII delle sue storiche e più note ville, ma anche nelle pratiche di progettazione territoriale di epoca sabauda che ha interessato particolarmente il territorio suburbano dell'allora sua antica capitale. Motivo di non secondario interesse è stato quello di scoprire, nella grande mostra allestita nelle sale del Castello, una innovativa "visione" di chi ne ha preparato e curato gli allestimenti, che vede inquadrata l'arte dell'illustre "Giardiniere del Re" in una prospettiva storica di attualissima modernità. Infine un ulteriore motivo di interesse è consistito, per noi, nel corso di quelle manifestazioni, nell'essere stato al loro centro un artista contemporaneo nostro conterraneo di grande spessore, quale è Giuseppe Penone, appartemente all'area della cosiddetta "Arte Povera", la cui opera è stata qui posta in grande risalto, quasi a sottolinearne il contrasto, con le scenografiche geometrie lenotriane dei giardini di Versailles.





L'ottocentesca haussmanniana visione dell'urbanistica, quella dei grandi lavori di trasformazione urbana di Parigi voluta da Napoleone III, radicalizzatasi nella ricerca di una nuova forma urbana nata dalla mascherata esigenza primaria di facilitare il controllo sociale della città sotto l'egida d'una emergente borghesia desiderosa di nuvi parametri di igiene e di diffusa magnificienza civile, trae la propria linfa dalla concezione estetizzante e salutista già applicata da Le Notre al binomio architettura-natura, ove l'architettura accoglie la natura, trasformando essa stessa in evento architettonico. La semantica lenotriana diviene così decisivo fattore di composizione formale. Ove i grandi viali prospettici, dei settecenteschi scenari della quotidianità aristocratica di palazzo, ritagliavano e trasdformavano i territori boschivi millenari della campagna suburbana, ora essi sfondano e rimodellano i malsani quartieri medievali, spazzandone via per sempre il degrado sociale. Questo modello di intervento, dal disegno dettagliato dei giardini a quello dei quartieri e dell'intera città informa, nonb solo tutto il secolo XIX, ma anche ampia parte del XX, improntando buona parte delle stesse avanguardie artistiche di quel secolo, e lasciando tracce di sè perfino oggi.


Abbiamo visitato la grande mostra parigina dedicata al genio architettonico di Andrée Le Notre, poco prima che terminasse, con l'idea di farne un articolo per Taccuini Internazionali. Eravamo entrati completamente assorbiti entro lo spirito settecentesco della monarchia assolutista francese, così fortemente segnata dal marchio visivo, tanto fatuo quanto circostanziato, della "Rocaille", ma ne siamo usciti discretamente "ristrutturati" dalla forse un poco azzardata ma anche convincente interpretazione fornitaci dai curatori, non priva di ambiti da ancora esplorare (Béatrix Saile, direttrice del Museo Nazionale del Castello di Versailles e del Trianon e curatrice generale, Patricia Bouchenot-Déchin, storica e curatrice, Georges Farhat, Professore Associato dell'Università di Toronto e curatore). Non a caso infatti il titolo della mostra, e del corposo catalogo, è "Andrée Le Notre in perspective", primo perchè in tutta l'opera del Maestro "la Prospettiva" è l'oggetto teatrale delle sue primarie cure, ciò che sostanzia la scena, o le scene, prima e più di ogni altro discorso, quello a cui ogni aspetto della "Vita di Palazzo", che sostanzia la governance dei suoi tempi, preso da lui in considerazione deve relazionarsi primariamente, e secondo perchè gli aspetti costitutivi dell'opera di Le Notre vengono nella mostra ampliati fino a comprendere l'oggi, finalizzando la ricerca che in essa viene fatta alla rilettura di quanto in questi ultimi trecento anni di storia dell'architettura del territorio, della forma urbana, dell'arte di comporre e pianificare il sito, possa o debba farsi discendere dal lascito di Le Notre.



Copertina del libro "Spazio, Tempo e Architettura", scritto da Sigfred Giedion e pubblicato negli USA nel 1941, sottotitolato "La crescita di una nuova tradizione", una cui gigantografia presenziava nell'ulòtima sala della grande mostra retrospettiva dedicata al Maestro architetto, giardiniere urbanista francese del '700 Andrée Le Notre, poichè utile alle tesi dei suoi curatori. In questa immagine infatti un grosso svincolo autostradale viene sovrapposto ad un disegno settecentesco riproducente i giardini di Versailles (immagine gigantografica presente alla mostra parigina  su Andrée Le Notre).


Non entriamo certamente qui nel vastissimo impegno conoscitivo, e informativo, dei curatori della mostra, ed in ultima analisi, della mostra stessa, quale summa di meraviglie documentali che la mostra finalmente espone raccogliendo dai musei di tutta la geografia dell'intervento lenotriano. Non vi entriamo perchè difficilmente ne usciremmo indenni, data la sua voluminosità, documentata anche dasl cospicuo libro-catalogo della mostra. Non vogliamo perciò tessere l'enorme rete di questioni, che ancora impegnano storici e documentalisti, legate alle grandi visioni speculative del talento di Le Notrée, come mix interessi d'arte e scienza che facevano di lui il personaggio indiscutibilmente più innovativo del suo tempo.



Joseph Viallanez: "Mappa dei Grandi e dei Piccoli Parchi, rappresentante il territorio boschivo, gli arbusteti e le stazioni di caccia" degli intorni di Versailles - Chateau del 1735, su carta, acquerelli ed inchiostro, 163,5 x 135, Archivi del Castello.



Ma intendiamo invece lasciare una testimonianza di quanto questa mostra, da poco terminata, abbia voluto e saputo dire di nuovo nella sua ultima sezione, quella nella quale sono stati messi in luce i gangli di una presunta, ancorchè azzardata, ipotesi critica che voglia massimizzare i lasciti artistici e scientifici del Giardiniere del Re Sole, tanto da vederne i nessi con molti aspetti non marginali che compongono il linguaggio del moderno. Sono aspetti che riguardano i modi di comporre di taluni artisti del '900, o i criteri di pianificazione dello sviluppo di città del XIX e XX secolo, nonchè di articolazione geometrica degli spazi architettonici che ancora governano scelte primarie di opere anche recentissime della nostra contemporaneità.



Francis L.V. Hoppin, vista a volo d'uccello del Piano Generale dell'Waschington Mall Area, su commissione Parchi del Senato, 1902. Acquerello su carta 86,4 x 182,9 (foto presente alla mostra parigina  su Andrée Le Notre)



L'influenza che ebbe il grande genio francese di Versailles, professionista che ebbe enormi commesse lungo tutti i lunghi anni della sua vita rendendosi personalmente operativo in tutte le grandi capitali europee, e perfino a Stoccolma, fu grandissima anche dopo la sua morte. Sia in Europa che in America, i suoi modi di concepire i piani di sviluppo del territorio, ma anche di organizzare gli spazi secondo geometrie elementari assiali fortemente accentranti, ma anche basate su triangolazioni dilatanti e dinamiche, ebbe impatti sempre più forti sui territori tanto da influenzare e coinvolgere spazi estetici diversi. Anche la pittura e la scultura ne vennero interessate, come non solo Sigfrid Giedion ebbe a constatare nel suo famoso libro "Spazio Tempo Architettura", non a caso sottotitolato "La crescita di una nuova tradizione", ma come anche l'attuale mostra parigina vuole argomentare con citazione ancora più attuali.



In alto: Roger de la Fresnaye, "Seated Man (The Architect)", 1913-14, Olio su tela, 130 x 165 cm. Museo Nazionale di Arte Moderna, Centre Pompidou Paris
Al centrp: Robert Mallet Stevens, Jan Martel and Joel Martel "Jardin aux arbres de Béton" in Michel Roux Spitz, "Batiments et Jardins à l'expositions des arts décorativs", Paris 1925
Mallet Stevens, Casa in Rue Mallet Stevens, 16° arrondissement, Paris (nome acquisito nel 1927 per i numerosi edifici cubisti li realizzati dall'architetto).
I primi due esempi sono presenti nella mostra parigina su Andrée Le Notre (il primo con la famosa tela di uno tra i primi artisti cubisti masi esistiti, ed il secondo con ampia documentazione fotografica). Essi intendono mostrare il legame obbiettivamente esistente tra il lascito linguistico del Giardiniere Reale, fatto di linearità e semplicità, ampiamente assunto in tutta la pianificazione urbanistica haussmanniana della capitale francese (e quindi per questo fortemente introiettato da tutti gli abitanti della città nell'arco di 3-4 generazioni) e la nascita del linguaggio futurista, espresso in termini di semplici piani cromatici giustapposti o intersecati. Non casualmente già la mostra per celebrare Le Notre che nel 1913 fu realizzata a Bagatelle annoverava dipinti di viste di giardini cubisti, di Roger de la Fresnaye e Paul Vera. Entrambi questi autori hanno contribuito alla "Maison cubiste", presso il Salon d'Automne del 1912, progettata da Andé Mare e Raymond Dichamp-Villon, la quale, altro non è, in quegli anni, che un'altra espressione di quella stessa idea.

 Così come a suo tempo fummo ammirati dalla narrazione del grande critico tedesco, che sapeva già unire entro uno sola solida critica estetica le reti geometriche di Le Notre con le grandi visioni  urbanistiche di Napoleone III a Parigi, resesi operative dalle mani del Barone di Hausmann, e queste all'ingegneria metallurgica di Eiffel, che da questa portava dritto dritto alla nascita del cubismo, sempre in Francia, e dagli ismi più significativi dell'astrattismo alla modernità, perchè, diceva ancora Giedion la meccanizzazione prendeva il comando. Quanto profetizzava la stessa grafica della sovracoperta di Spazio Tempo Architettura, dove uno snodo autostradale multipiano, testimonianza  dell'avvio della motorizzazione di massa, si sovrapponeva ad un disegno prospettico dei giardini della Reggia di Versailles, lo storico tedesco ribadiva nel considerare del tutto conseguente all'estetica lanciata da Le Notre l'estetica della meccanizzazione massiva del XX secolo. Ricordiamo una sua lectio magistralis alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano nella quale, con toni messianici, il grande storico e critico dell'arte e dell'architettura metteva in guardia le giovani generazioni di architetti circa l'assunzione troppo dogmatica dei parametri estetici del mondo moderno quando e se dominato dalle rigide regole della meccanizzazione al potere.


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John Wenrich Architetti Associati, Pianta e alzato assonometrico del Rockefeller Centre a New York, 1935, parti del disegno complessivo, inchiostro, grafite e pastelli su carta, 17,25 x 22,5, dall'Archivio del Rockefeller Centre (immagini presenti alla mostra parigina  su Andrée Le Notre). I curatori della mostra riportano i disegni originali dell'intervento newyorchese che più marchiato il secolo XX, per mostrare quanto in fondo strida l'audacia costruttiva di questo colosso edilizio prospettante sulla V strada, il quale per molti versi ha dato un forte contributo all'architettura della città moderna, con il dettaglio della composizione degli arredi verdi che, come si vede in questi disegni originali, ne ornano le piazze, le aiuole, le coperture, analogamente a quanto andava facendo anche Le Corbusier, nell'arredare le terrazze, i cortili ed i patii della sue contemporanee ville moderniste (vedi le fotografie qui sotto).


I dipinti e i progetti soprariportati di Roger de le Frasnaye ed il Giardino della Maison Cubiste di Robert Mallet-Stevens, presenti alla mostra parigina su Le Notre, intendono mostrare il legame obbiettivamente esistente tra il lascito linguistico del Giardiniere Reale, fatto di linearità e semplicità, ampiamente assunto in tutta la pianificazione urbanistica haussmanniana della capitale francese come fin dal 1941 Giedion ha voluto spiegare (e quindi per questo fortemente introiettato da tutti gli abitanti della città nell'arco di 3-4 generazioni) e nella nascita del linguaggio futurista, espresso in termini di semplicità cromatiche di piani giustapposti o intersecati. Non casualmente già la mostra per celebrare Le Notre che nel 1913, che fu realizzata a Bagatelle, annoverava dipinti di viste di giardini cubisti, di Roger de la Fresnaye e Paul Vera.



Le Corbusier, schizzi di Versailles e dell'Orangerie, inchiostro nero, acquerello, matita, 31 x 40 cm. Le Corbusier e Pierre Janneret, villa Church a Ville.d'Aray, 1927-29, penna, pastello e inchiostri di china su carta da lucido(entrambi documenti presenti alla mostra parigina  su Andrée Le Notre).

Roger de la Fresnaye e Paul Vera hanno contribuito entrambi alla realizzazione della "Maison cubiste", presso il Salon d'Automne del 1912, progettata da Andé Mare e Raymond Dichamp-Villon, la quale, altro non è, in quegli anni, che un'altra espressione di quella stessa idea che lo stesso Le Corbusier fece sua. In Le Corbusier, il linguaggio compositivo che univa con un filo invisibile l'arte di Le Notre alla nascita del cubismo, non fu tanto parte integrante della sua teoria, quanto piuttosto un lascito, un influsso acquisito in modo pressochè inconsapevole, come fosse parte di un lascito lontano ma già fortemente interiorizzato (altre erano le idee corbusiane destinate ad essere da lui teorizzate). Ma nel suo linguaggio, così come dai suoi stessi disegni e schizzi a matita, ne emergono chiaramente gli elementi-chiave (anch'essi divenuti oggetto di studio approfondito dai curatori della mostra del tricentenario lenotriano).


Gilles Vexland a Laurence Vacherot, Riemer Park a Monaco, 1998-2006 (documento presente alla mostra parigina  su Andrée Le Notre)


 Tali elementi chiave sono gli stessi che non difficilmente vediamo riemergere in molte delle avventure architettoniche ed urbanistiche dei tempi più recenti, nei quali una rigorosa geometria d'impianto ortogonale viene "dissacrata" dalla sovrapposizione di reti triangolate, di diagonali improvvise ed improbabili, raggere prive di vere centralità (quasi come, nella rigorosa maglia newyorchese di Manhattan, il trascciato di Broodway ne confermasse la suprema regola, causando ad ogni suo attraversamento lo stupore dell'eccezione.



Peter Walker, National 9/11 Memorial, New York, Peter Walker Partners (Berkeley)


La realizzazione del Memorial sul sito che fu delle Twin Towers, prima dell'11 settembre 2001 sembra non abbia tradito, ancora oggi, che il progetto non del tutto è stato completato, il lascito semantico lenotriano, nelle sue semplici, elementari geometrie architettoniche emergenti dall'indistinto contesto verde, impostate su giaciture disassate rispetto alle reti stradali limitrofe. Una composizione, quella attribuita al sito dai suoi autori, che risolve tutto il carico emotivo della memoria che in esso viene evocata, attorno alla semplicità e alla sobrietà dei pochi elementi in gioco, alla suggestiva forza evocativa nel nesso tra i suoi diversi elementi, alla tersa grandezza dei suoi spazi vuoti rispetto ai pieni che li definiscono e racchiudono, alla bellezza del rapporto tra artificio e natura.

Una scena, tante scene, fatte di elementi tutti già raccontati tre secoli orsono dalla matita e dall'ingegno, tra loro uniti, dell'augusto costruttore reale di Francia, Andrée La Notre.


Enrico Mercatali
5 marzo 2014