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21 February 2020

Flavia Filippi fotografa



Flavia  Filippi
 fotografa



Sopra al titolo: "Lago Maggiore". Qui sopra: "Partenze"


Le foto qui sopra e sotto al titolo sono state scattate sul Lago Maggiore. Lesa è la località di residenza dell'autrice. CASABELLA - Lago Maggiore è la casa nella quale vive e lavora. Ma Flavia Filippi non è una fotografa professionista. Il suo voler fissare in immagini quanto a volte la ispira poeticamente è frutto di una abitudine spontanea e saltuaria che da qualche tempo la vede impegnata a raccogliere le immagini scattate con il cellulare quanto prima finiva nel cestino. 



 Qui sopra: Venezia. Omaggio a Ozu


Dopo aver intuito l'interessamento per questo suo lavoro da parte degli amici di Facebook o di Instagram, semplicemente constatando il crescente numero dei "mi piace", le sue foto non vengono più cestinate, ma raccolte, classificate, catalogate. Sua figlia Aurora un giorno le ha ordinato 12 fotografie scelte da stampare in un calendario. Recentemente c'è chi le ha proposto di fare una mostra... 



 Qui sopra due foto, in alto: "Caravaggio". In basso: "Ideogrammi"


E' così che, un poco alla volta, lei si sente impegnata su un fronte nuovo ed inaspettato, passibile di futuro, ma anche legato ad una sua lontana formazione: Flavia Filippi infatti, che ha studiato Scienze Politiche ad indirizzo sociologico, una trentina d'anni fa si è laureata con una tesi dedicata alla professione di fotografo, raccogliendo interviste presso i più importanti nomi della fotografia italiana, tra cui Gabriele Basilico, Uliano Lucas, Marirosa Ballo (Studio Ballo), ed altri. La tesi è stata la prima di tal tipo in italia, realizzata in un periodo nel quale la professione non era ancora normata, e per lo svolgimento della quale non occorreva ancora far riferimento ad un preciso ordinamento.



 Qui sopra due foto, in alto: "Chiesa Vecchia a Belgirate". In basso: "Gothic Basel"


Come in questa breve presentazione tutte e fotografie di Flavia Filippi sono rigorosamente in Bianco e Nero. Ma non è questa l'unica sua cifra. I temi che lei tratta sono di varia natura: paesaggi, scorci urbani fortemente angolati rispetto all'orizzontale, architetture e dettagli architettonici, nature morte, ecc. Ciò che più l'attrae di tali soggetti è la luce, che spesso viene trattata per forti contrasti, ed in presenza di intense e ben marcate ombreggiature. Una particolare sensibilità grafica, dal segno netto e ben inciso, che tutte le foto dell'autrice rivelano senza equivoci, deriva dagli studi di lingua e cultura giapponese, da lei seguiti presso l'ISMEO (Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente), negli anni in cui forte è stata in lei l'attrazione verso il cinema di Ozu.


Enrico Mercatali
21 febbraio 2020

13 November 2016

Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo, nelle fotografie di Ferdinando Scianna




Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo
nelle fotografie di Ferdinando Scianna

a Venezia - Galleria Tre Oci




Abbiamo appena trascorso tre giorni e tre notti nello splendido Ghetto veneziano, così ricalcando le nostre stesse orme degli ultimi cinque o sei anni in visita alla Biennale. Non abbiamo più abbandonato questa comoda ed ospitale collocazione in città soprattutto per via della sua spontanea accoglienza, per il calore del bell'alberghetto che ci ha ospitato, che compare quasi protagonista entro l'architettura del grande campo riprodotto nelle fotografie di Scianna, per la vivacità della vita quotidiana che dà ancora l'idea che Venezia esista come luogo per risiedervi, per la squisitezza delle preparazioni gastronomiche che vi propongono i ristoranti ebraici. Quest'anno, nel quale ricorrevano i 500 anni dalla nascita del Ghetto, abbiamo fatto di più, visitando la grande mostra di palazzo Ducale ad essa dedicata, e la mostra fotografica di Ferdinando Scianna, di cui qui di seguito riferiremo.



Qui sopra due immagini del campo del Ghetto Nuovo. 
Al di sopra della Locanda del Ghetto (protiro con loggia e terrazze) è la Sinagoga Italiana.


Venezia dedica alla memoria del Cinquecentenario della costituzione del Ghetto (il primo ghetto mai realizzato al mondo), oltre alla grande mostra di palazzo Ducale dal titolo "Venezia gli Ebrei e l'Europa 1516-2016"), una mostra di fotografie di Ferdinando Scianna per Magnum Photo scattate oggi nel Ghetto veneziano. La Galleria Tre Oci alla Giudecca ne ospita il lavoro prevalentemente incentrato sulla grande vitalità civile, religiosa, culturale che ancora si snoda davanti agli occhi del visitatore nelle strette strade e delle piazze del Vecchio, del Nuovo e del Novissimo Ghetto a Cannaregio. Come è nella sua sigla, quella che tanto Leonardo Sciascia aveva apprezzato quando vide la sua prima mostra in Sicilia, e quella che convinse Cartier-Bresson ad introdurlo nella prestigiosa agenzia Magnum Photos di cui divenne membre nel 1982, egli ritrae luoghi e personaggi cercando una forma.



Qui sopra:  Insegnamento del rabbino nel Midrash Luzzatto dentro la sinagoga Levantina 


Il Ghetto rivive, e indelebilmente si imprime perciò, in queste fotografie che danno testimonianza non solo di una sempre forte vitalità, sia diurna che notturna, della gente che ne popola le strade, le piazze, le case, i negozi, le scuole, le sinagoghe, rendendola ancora e sempre tipicamente veneziana proprio in quanto cosmopolita, ma anche di quella ricchezza di segni e di comportamenti che ne sanno raccontare, rafforzandone i caratteri, quella che forse è la più tenace tra le presenze etniche nella storia della città.


Qui sopra: visitatori di una comunità ebraica americana attraversano il ponte del Ghetto Vecchio


Ancora oggi, come ci segnala Scianna, così come avveniva un tempo, le persone e i luoghi divengono un tutt'uno entro il quotidiano che racconta la storia, così come oggi comportamenti civili e riti religiosi si mescolano nelle calli, si rappresentano nei campi e lungo i canali del Ghetto, si infondono nei cibi delle sue panetterie e dei suoi ristoranti koscher, oppure si illustrano e si plasmano nei suoi quadri e nel suo artigianato, divenendo oggi perfino esperienza turistica per chi vi entra e lo vive dall'interno.

Pietre d'inciampo nel campo del Ghetto Nuovo
Interno della Galleria Tre Oci di Venezia alla Giudecca



Enrico Mercatali
Venezia, 10 novembre 2016

11 October 2016

Renzo Mongiardino nel moderno - Quando l'architetto dei VIP opera nei BBPR







Renzo Mongiardino nel Moderno 

ovvero

quando l'architetto dei VIP opera nei  BBPR



e l'iconoclasta caparbiamente cerca
ritrovando l'oggetto che aveva distrutto
 nel solco d'una riscoperta memoria.




Ingresso con scala alla zona notte

Si tratta in questo articolo di un arredo siglato Renzo Mongiardino nei locali agli ultimi piani di un palazzo progettato a Milano dai BBPR (Belgioioso, Banfi, Peressutti e Rogers, gli architetti della Torre Velasca) negli anni '60 (vedi: http://taccuinodicasabella.blogspot.it/2016/10/quando-io-iconoclasta-del-surreal-neo.html). Nel titolo se ne sintetizzano i contenuti, nei quali si racconta d'un cambio di destinazione d'uso dei locali (attico, superattico e giardino pensile) che ha comportato la demolizione dell'arredamento mongiardiniano per fare spazio ad una nuova configurazione architettonica degli interni che più corrispondesse alle nuove necessità abitative del proprietario. All'autore delle nuove sistemazioni, tra l'altro autore anche di queste note, a così tanti anni di distanza da quegli eventi demolitori, pare oggi, anno in cui una bella mostra al Castello Sforzesco  tratteggia la geniale figura di Renzo Mongiardino, d'essere stato complice d'una azione iconoclasta.


Il cerchio che chiude un personale raggiungimento di scopo
lascia comunque il vuoto d'un documento perduto
che può ritenersi oggi di ragguardevole valenza artistica



Ingresso con passaggio al soggiorno


Quegli arredi  griffati  Mongiardino, andati in demolizione alla fine dei '70 per raggiunti limiti di funzionalità d'un appartamento in uno stabile realizzato nel centro di MIlano una quindicina d'anni prima dai modernisti Belgioioso Peressutti e Rogers, era stato fotografato, poco prima di quell'evento, allo scopo non già di documentare un'opera che oggi vediamo almeno meritevole di memoria, quanto quello di rilevare, con intento puramente tecnico, tutti gli elementi fissi di quegli interni che potessero essere poi utili alla realizzazione della nuova progettazione. Alcune di quelle fotografie, che qui vogliamo mostrarvi, sono state realizzate dal sottoscritto, autore materiale anche di quella avvenuta demolizione oltre che della successiva riprogettazione, nel corso seconda metà degli anni settanta, e ben descrivono i caratteri di quella abitazione, i suoi stucchi e le sue modanature in gesso, gli encausti eseguiti in sito, le tappezzerie coordinate a parte della mobilia, le componenti lignee fisse e mobili,  le suppellettili selezionate personalmente dal loro augusto autore, gli intarsi pavimentali e quant'altro occorre a rendere unico e speciale il suo odierno dispiegarsi ai nostri occhi.



Il soggiorno



L'opera di Renzo Mongiardino insegna che
dalla storia possano attingersi infiniti linguaggi,
la cui attualità può dirsi eterna
sia che si tratti di una rappresentazione teatrale, 
 sia che si tratti di una perfetta rappresentazione di sè




Sala da pranzo


Queste fotografie, che illustrano l'area di ingresso alla casa, con la scala lignea rettilinea che conduce al piano superiore destinato alla zona notte, l'ampio soggiorno, lo studiolo annesso all'area living con la sua pregiata boiserie, la sala da pranzo, sono state a lungo ricercate negli archivi del loro autore tanto da costituire un vero e proprio scoop il loro recentissimo ritrovamento, così potendosi ora esse aggiungere all'ormai davvero cospicuo materiale documentale dell'opera mongiardiniana, la cui parte più significativa è stata in questi mesi raccolta nel bel libro di Officina Libraria dal titolo "Renzo Mongiardino Architettura da Camera".
Oggi quindi, nell'anno in cui decorrono i cent'anni dalla nascita di Renzo Mongiardino ed in cui il Comune di Milano ha dedicato una bella mostra documentaria alla sua ampia produzione artistica, sia come sapiente architetto di interni che come scenografo di grande talento, i documenti ora ritornati alla luce costituiscono un prezioso contribito di conoscenza e di omaggio al loro autore. Nelle cinque immagini qui riportarte leggiamo la mano sicura di uno dei maggiori maestri d'interior design del XX secolo, il quale, in una delle sue rare apparizioni in veste di scrittore, ha definito il suo stile "surreal neobarocco".



Lo studiolo



In questo scritto, riportato all'interno del catalogo della mostra milanese, il maestro dell'"architettura da camera" prende le distanze non solo dal modernismo, pur essendo egli stato allievo di Gio Ponti e, per un certo periodo giovanile, anche estimatore di le Corbusier, ma anche dal postmodernismo, il cui atteggiamento ironico denuncia un complesso d'inferiorità nei confronti dell'antico, che ne limita il libero dispiegarsi del linguaggio secondo formule maggiormente e totalmente creative. Se ne deduce che il suo fluido e spontaneo appoggiarsi alla storia, piuttosto che alle incognite di un futuro tutto ancora da inventare, sia per lui il veicolo d'una più libera ma anche più sicura interpretazione degli  intimi e talvolta occulti autentici desideri dei suoi committenti, il modo di creare uno sfondo alla loro personalità, fornendo loro un palcoscenico nel quale ben rappresentarsi.


Enrico Mercatali
Milano, 10 ottobre 2017

P.S.

L'ironia della sorte ha voluto che, se delle immagini della sistemazione mongiardiniana è avvenuto sia pure tanto tardivamente il ritrovamento, e la avvenuta loro pubblicazione, della sistemazione successiva, quella realizzata dal sottoscritto in quogo della precedente, non sono mai state ritrovate fotografie che ne potessero documentare quanto meno la riuscita del prodotto finale rispetto alle aspettative dei committenti, se non proprio la possibilità di un confronto tra un "prima" e un "dopo" così diversi tra loro.

E.M.
Lesa, 13/10/2016

19 November 2014

Venezia e la Divina Marchesa - di Enrico Mercatali






Venezia 
e
 la Divina Marchesa




Sopra al titolo: Man Ray "La marchesa Casati", 1922, con intervento di Luisa Casati del 17 dicembre 1923 e scritto autografo di Gabriele d'Annunzio (opera conservata a Gardone Riviera, Fondazione Il Vittoriale degli Italiani).
Sotto al titolo: Anne-Karin Furunes "Crystal Image/Marchesa Casati", 1912-14; immagine dell'atrio di ingresso alla mostra odierna a Palazzo Fortuny, ove si vede sullo sfondo il ritratto macrofotografico oggi rrealizzato dall'originaria foto di Anne-Karin Furunes ed, in primo piano, un manichino che indossa un abito d'epoca indossato dalla marchesa Luisa Casati Stampa (fotografia di Enrico Mercatali)



E' in corso nella città lagunare una mostra che descrive due eccentricità a confronto, dalla personalità spiccata e un fascino prorompente. L'epoca è quella d'una Belle Epoque capace di mostrarsi al mondo senza porre limiti alle proprie follie: una città sfarzosa e affascinante ed una donna dalle inesauribili promettenti risorse.
La città rappresentata è la stessa Venezia, e la donna di cui si parla è la Marchesa Casati Stampa di Soncino, detta Divina da artisti e poeti, la quale in laguna ha trovato, tra gli anni ruggenti e quelli ancor più folli che seguironio, un palcoscenico perfetto per mettere in mostra il proprio charme e la propria vitalità estetizzante.



Sopra: molto in vista nelle cronache del tempo era anche l'ereditiera del grande collezionista d'arte Solomon Guggenheim, Peggy, in questa foto ritratta da Man Ray, in abito dorato di Paul Poiret e copricapo di Vera Stravinskij. Sotto: la facciata di Palazzo Fortuny in campo San Beneto (fotografia di E. Mercatali), fucina creativa, centro di produzione e di promozione, teatro e passerella di tanta moda dell'alta società veneziana tra gli anni '10 e '30 del secolo XX.


L'evento si svolge oggi in uno dei più affascinanti palazzi della Venezia più interna, che fu proprio quello che la ospitò e che le diede lustro: Palazzo Fortuny, già appartenuto ai Pesaro (Pietro nel 1522 vi divenne Procuratore di San Marco) ed in seguito divenuto proprietà di Mariano Fortuny Madrazo, spagnolo, creatore di moda e fotografo di fama, la cui mondanità a contatto con le personalità più illustri dell'epoca, lo elessero intimo amico della Marchesa Casati Stampa e compartecipe alle numerose sue esibizioni davanti allo scenario della città, tra gli anni ruggenti e quelli che seguirono, segnando la fortuna mediatica dei due tra le due grandi guerre. Palazzo Fortuny, mantenuto quale sede abitativa e professionale fino alla sua morte del suo proprietario, nel 1949, a partire dagli ultimi anni dell''800, fu, delle stravaganze veneziane della famosa aristocratica signora e delle sue volubili ed estetizzanti passioni, lo scenario ideale. Nei suoi grandi e luminosi saloni infatti, proprio dove oggi ha corso di svolgimento la mostra che ne narra le vicende, si svolgevano grandi ricevimenti, e vi si intrecciavano storie di lavoro e di produzione artistica, nonchè avvincenti relazioni tra persone che erano destinate a segnare i tempi con la loro azione, mossi che fossero da sentimenti o interessi personali, da puro desiderio segnaletico in un periodo di nuovi esibizionismi oppure da autentiche e travolgenti estetizzanti follie.



La Divina Marchesa ha qui sopra dato il suo volto e il suo corpo in ritratti a lei dedicati da diversi artisti, assai in voga in quell'epoca. Dall'alto al basso: di Kees Van Donghen, "Il molo" Venezia 1921; Giovanni Boldini "La marchesa Casati con levrieri", 1908; Augustus Edwin John, "La marchesa Casati" 1919; Romaine Brooks "La Marchesa Casati", 1920; Roberto Montenegro "Ritratto della marchesa Luisa Casati Stampa, 1914; Alberto Martini "Ritratto della marchesa Casati nel mio atelier a Parigi - Una grande artista, 1925.



Da Palazzo Fortuny sono transitate infatti schere di artisti, poeti, scenografi, coreografi tra i più noti, che sono stati travolti dalla forte personalità della Marchesa, e che, in diversi modi, hanno avuto parte attiva nella sua vita in continuo divenire nelle cronache dei primi decenni del '900, lasciandovi testimonianze nelle lettere, nelle fotografie, nella moda di quegli anni, in dipinti e disegni che la ritraevano nelle sue esplicite sembianze oppure, secondo il costume che accompagnava le feste più sfarzose che la nobiltà veneziana in quegli anni si inventava, in travestimenti più o meno riusciti di personaggi storici o di fantasia a seconda dei copioni da rappresentare.
Attorno agli anni '10 destavano già scalpore le sue famose uscite in gondola negli oscuri canali della venezia notturna, o nelle passeggiate in piazza San Marco, accompagnata dal servitoire nubiano Garbi che la illuminava reggendole un candeliere dorato, e dal suo inseparabile felino, un ghepardo dal collare di diamanti spesso al suo fianco nei quadri che la ritraevano, e dai levrieri dipinti di blu o di viola, "accessori animati" dei ricchi abiti che indossava. Mentre lei indossava scarpine dorate dai tacchi di madreperla, sulle spalle di Garbi facevano gruppo pappagalli multicolori o scimmiette squittenti, ed assieme propagandavano l'essenza di una donna che avrebbe sorpreso e poi stimolato alcuni tra i più grandi artisti dell'epoca, i quali incominciavano a ritrarla nelle loro opere, così alimentando il narcisismo della Divina signora in un circuito senza fine.

Perfino il famoso coreografo russo ed il suo scenografo allora più in vista, Diaghilev e Léon Bakst, ebbero parte attiva nella vestizione e travestimento della Marchesa Casati negli anni, che la ritrassero nelle vesti di danzatrice


 
 
 

Altri ritratti della Divina Marchesa in opere di altrettanti artisti della sua epoca d'oro, o in quella della sua decadenza. Dall'alto al basso:  di Léon Bakst "Danse indo-persane/Marquise Casati", 1912; Paolo Troubetzkoy "Ritratto della marchesa Casati con levriero", 1914; Giacomo Balla "La marchesa Casati con levriero e pappagallo", 1916; Giacomo Balla "Fluidità delle forze rigide della marchesa Casati, 1917; Fortunato Depero "La marchesa Casati", 1917-46; T.J. Wilcox "Night Cloaked Casati",  2008.


Musa di modernità ed ispiratrice di stravaganze modaiole, modella d'avanguardie artistiche ed essa stessa portatrice di vento nuovo, artista performantica avant-lettre ed incarnato idolo di poeti scrittori commediografi l'aristocratica signora fu corteggiata, ed anche amata, nelle più diverse forme che essa andava concedendo, da Gabriele d'Annunzio (Ariel per lei, e Corè per lui), al barone Adolf de Meyer, da Léon Bakst ad Alberto Martini, da Gacomo Balla a Giovanni Boldini, da Mariano Fortuny i Madrazo a Paolo Trubetzkoy, da Kees van Dongen a Filippo Tommaso Marinetti, da Fortunato Depero ad Augustus Edwin John, da Man Ray a Romaine Brooks, da Axel Munthe a numerosi altri.

Hanno scritto ispirandosi a lei Gabriele d'Annunzio, Filippo Tommaso Marinetti, Tennessee Williams, Jack Kerouac, Maurice Druon, e tanti altri.



Adolf de Meyer "La marchesa Casati", 1911, con una massima autografa di Gabriele d'Annunzio del 6 agosto 1913, riutilizzata nel suo "Libro segreto", 1935 (Gardone Riviera, Fondazione Il Vittoriale degli Italiani).


Venezia, ottobre 2014
Enrico Mercatali

28 July 2014

Narcissus Selfie. Sono io l'inventore dei selfie. Non col cellulare però, ma solo con la mia Nikon Reflex - di Enrico Mercatali






Narcissus Selfie




Per quanto ne sappia, sono io l'inventore dei selfie.
Tutto questo è quanto volevo affermare in questo scritto: dire cioè d'assere stato io il primo a mettere in atto questa pratica autofotografica fin dagli anni '60, divenuta oggi di moda, alla quale è stato di recente attribuito l'azzeccato nomignolo di selfie.

Ecco quindi qui Narciso, che si mette al centro di tutto, e che si crede primo tra gli altri! In tal caso si, ma non perchè si autofotografa con il cellulare.





Il fenomeno, oltre ad essere ora largamente in uso è anche stato più volte discusso e analizzato.
Come oggi, sul Sole, in un articolo che ho appena terminato di leggere.
L'articolo che scrivo ora su Taccuini mi è stato suggerito infatti proprio dalla lettura di "Il selfie di Narciso" di Paola Mastrocola (Il Sole 24 Ore inserto di domenica 27 luglio 2014), nel quale l'autrice si lancia in affermazioni che giudico quantomeno azzardate.

Tra queste ne seleziono alcune, quali, già nel sottotitolo: "Niente male nel fotografarsi, per carità. Ma quel braccio teso, quella propaggine di noi che ci fa sorridere è l'inquietante modo in cui mandiamo agli altri la nostra solitudine". Non male come incipit.

Ma si dice anche poi, oltre, nel lungo ed articolato testo tra il sociologico e l'antropologico: "Selfie, quello straordinario e nuovissimo gesto di fotografare se stessi, a cui abbiamo attribuito quella snella ed afficace parolina inglese: selfie. Intraducibile, unica. Il selfie si, è narcisismo puro".

Dico subito, per motivare questo stesso articolo, che con queste dichiarazioni non mi trovo affatto d'accordo.





Ma continua l'articolo della Mastracola: "Allora niente di male nel fotografarsi, per carità. Il fine è comprensibilissimo e anche degno: mandare agli altri, amici e parenti per esempio, una propria foto, non avendo nessuno sottomano che in quel momento ce la possa scattare. Benissimo. La mirabile capacità del fai da te, massima dimostrazione di autonomia. Tanto più che gli strumenti che abbiamo a disposizione oggi ce lo consentono: ti piazzi il cellulare in faccia e sfiori il tasto, fatto! Nulla di così diverso dall'autoscatto in fondo". Concludendo poi: "Ma abbiamo visto qualcuno che si fa un selfie? Voglio dire, ci siamo mai fermati a guardare attentamente una persona nell'atto di farsi una foto con il proprio cellulare? Facciamolo. Sostiamo un momento, e osserviamo. Prendiamo un ragazzo sui venticinque anni. E' seduto sui gradini di un parco. Jeans e maglietta. Capelli biondini, corti. Di colpo estrae il cellulare e se lo mette davanti al viso. Un po' in alto. Lo tiene in alto sulla propria testa., col braccio teso. E clic, si fa la foto. Io non so, ma credo che sia quel braccio teso che mi provoca un leggero disagio, una punta di malessere.






No, non è il braccio. E' che quel ragazzo si sorride". Al leggero fastidio dell'autrice viene poi aggiunto: "Sorridersi! Che verbo strano. Che cos'è, un riflessivo improprio? Molto improprio, direi. Il sorriso è per definizione un gesto che rivolgiamo a un altro. Cioè, intendiamoci. Possiamo benissimo sorridere da soli. Ci passa per la testa una cosa comica, una scena, una frase che ci fa ridere, e ridiamo.  Certo che può succedere. Ma sorridersi per fare una foto mi pare un'altra cosa.  Mi prende il cuore.  Non va bene".
Qui l'autrice azzarda giudizi di valore, continuando così: "C'è qualcosa che disturba. Che cosa? Sorridiamo sempre quando ci fanno una foto, è vero. Ma sorridiamo, in fondo, a ben pensarci, a chi ci fa la foto. Non vediamo il suo occhio perchè è coperto dalla macchina, ma sappiamo che c'è, è li dietro, e ci sta guardando. Anzi sappiamo che quell'occhio è li per guardarci. Fotografare è guardare l'altro nel modo più spudorato. E' esattamente questo. E' lo sguardo che si copre per poter essere più scoperto possibile, si nasconde per rivelarsi, o si rivela per nascondersi, fa uguale. Noi, i fotografi, sappiamo che l'altro ci guarda.





E c'è un sottile piacere nell'esser guardati attraverso una macchina... il sorriso che facciamo in foto è il sorriso che facciamo a lui (il fotografo), amico o sconosciuto che sia. Coin selfie invece, è il sorriso che facciamo a noi stessi. Narciso non l'avrebbe mai fatta una cosa simile. Noi si. i veri Narcisi."






E' il cellulare che ha posto le basi del selfie di massa. La sua leggerezza, l'ergonomicità, le modalità "foto avanti" e "foto dietro", la semplicità operativa, il grande display.

Io invece, possessore di Nikon Reflex F2, ho incominciato a fare selfie da quando, alla fine degli anni '60, mi sono comprato un grandangolo Nikkor 20mm per avere immagini complete di ambienti da me progettati, e poi realizzati.


Chi non fa selfie oggi, o non si predispone a riconoscerne l'esistenza? perfino Papa Francesco sorride e si fa ritrarre in tutti i modi assieme ai suoi fans. Vede in esso solamente il discutibile impulso narcisistico, o ne riconosce l'utilità sociale? In queste fotografie la risposta si dà da sola.



Poi, tanto per confutare l'impianto logico dell'articolo scritto da Paola Mastrocola, ho cominciato a fare selfie proprio per via del grandangolo Nikkor 20 mm, il quale, assai facilmente e senza soverchio sforzo consentiva di riprendere me stesso dentro a quegli ambienti, mentre fingevo di guardarli, o mentre ne indicavo i particolari, in corso d'opera. Trattavasi di una sigla, prima di farne un book, generalmente richiesto dai clienti, specialmente nei casi di opere seguite a distanza dal committente, per mostrargli le problematiche da discutere, gli aspetti ancora controversi di cantieri presso i quali avevo fatto sopraluoghi. Narciso quindi centra poco o nulla del tutto.




Qui Ugo Mulas ritrae se stesso allo specchio, e con la moglie Nini, nella celeberrima serie "Verifiche", del 1970. Erano "selfie" che avevano come tema la fotografia stessa. In questi esperimenti che fecero storia egli, e la moglie,  si guardarono bene dal sorridere.


L'abitudine fatta per questa pratica, faceva frutti anche in situazioni diverse, al di fuori del lavoro. Premettendo che la dedizione mia alla fotografia era a tal punto intensa, in quegli anni, che raramente nel corso della giornata mi trovavo senza un apparecchio di ripresa in mano. Se ero invece, come spesso accadeva, assieme a qualche persona, amico o amica, fidanzata o moglie che fosse, non mi sembrava interessante ritrarre sempre da sola questa o quella persona, e preferivo accostarvene un'altra: me stesso nella fattispecie, che fossi davanti a un paesaggio, dentro a un museo o una galleria d'arte, su una spiaggia o davanti a una vetrina, accanto a una macchina o ad un monumeto. Dove sta allora il "trasmettere agli altri la nostra solitudine? Il contrario direi: io desideravo non lasciare sola quella persona, nella foto, lì, ferma come un birillo inmerte, ma accompagnarla ad un'altra, accostandola al sottoscritto, proprio per rendere la foto più naturale, più completa, più logica, più calda. I miei acompagnatori, o le mie accompagnatrici, le loro figure non assomigliavano in ciò a statuine imbarazzate, ma erano invece soggetti colloquianti tra loro e con lo sfondo, il quale spesso era il vero contenuto delle foto, il quale sembrasse vissuto da noi come realmente avveniva, e non soltanto oggetto d'un ricordo amorfo privo di vita.


Qui sopra Mario Dondero inaugura una sua mostra a Belgirate, nel 2011. Sembra si faccia un selfie. Invece promuove la sua mostra, mostrando se stesso e la sua Leica  (foto da Enrico Mercatali). Qui sotto lo stesso Mario Dondero, "fotoreporter senza archivio e senza digitale", fotografato e intervistato da "la Repubblica" (sabato 9 agosto 2014) dice: "Se l'obiettivo è rivolto sempre verso se stessi, non si vede nulla", "Io e la mia Leica siamo sopravvissuti all'era del selfie".





Non ho mai visto altre persone per decenni fare altrettanto, ed infatti ero noto tra gli amici come colui che fotografava in quel modo, che faceva "selfie". Naturalmente io lo facevo senza sapere che, un giorno, negli anni '10 del 2000, si sarebbe chiamato selfie
Se qualcun altro già allora lo faceva, si faccia avanti, prego. E questo si, invece, che potrebbe dirsi narcisismo.



Selfie ante litteram by Parmigianino. L'artista inquieto nel 1523 precorse i tempi facendosi un autoritratto riflesso da una lente, come fosse davanti ad una fotocamera con obbiettivo fortemente grandangolato: risulta percepibile l'intera stanza retrostante e deformate alcune parti del suo corpo.

Enrico Mercatali
28 luglio 2014
(aggiornato il 12 ago 2014)