Taccuini Internazionali visita il Museo del Novecento di Milano
Sopra: L'immenso Spazio-Fontana a doppia altezza, sovrastato dalla grande Struttura al Neon realizzata da Lucio Fontana per lo scalone di ingresso della IX Triennale del 51, e la stupefacente veduta sulla piazza del Duomo. Un'altra curiosità di questa sala è costituita dal controsoffitto in ceramica del livello inferiore, dalle misure eccezionali di 9 metri per 15, che l'artista fece nel 1959 per un albergo a Procchio (isola d'Elba).
Sotto: le bianche strutture della avvolgente spirale in ascesa, che dall'ingresso porta i visitatori alla sommità dell'Arengario, che sembra omaggiare il capolavoro wrightiano del Guggenheim di New York, organismo museale che, per primo nel novecento, concepì l'idea di una unica sala espositiva capace di coivolgere tutto il suo pubblico e le sue collezioni d'arte moderna in un unico abbraccio.
Terminato l'affollamento dei cittadini curiosi della prima settimana dall'apertura abbiamo fatto una visita all'interno del Museo del Novecento, per sperimentarne la sola architettura e gli ambienti, non tanto in relazione alle opere, per le quali faremo una apposita visita dedicandovi anche più tempo, quanto in relazione al suo pubblico e al suo rapporto con la città circostante, vista dall'interno.
Riguardo a questi due temi il Museo regge bene al primo impatto, e sicuramente regala un po' di quell'orgoglio che da tempo mancava ai milanesi, specie se non più appartenenti alle ultimissime generazioni, dei cui gusti e del cui rapporto con la città ancora non bene sappiamo.
Siamo stati senz'altro ben impressionati dalla dimensione complessiva del museo, dal fatto che esso non limita i propri spazi al solo edificio dell'Arengario, come pensavamo, ma riversa una buona parte di esso entro i piani superiori dell'ala destra di Palazzo Reale. Una dimensione perciò all'altezza delle collezioni, anche se non proprio di tutte le parti di esse. E' inutile dire come gli spazi più consoni alle diverse fasi ed ai diversi movimenti dell'arte del novecento sono proprio quelli ricavati dalle grandi sale del palazzo piermariniano, quanto meno per altezza dei locali, se non anche per le dimensioni in pianta dei medesimi.
E questo è apparso subito ovvio, per di più, al solo ingresso ed alle sue fasi che subito sono seguite, ovvero rendendosi conto che il grande congegno architettonico della spirale in salita, costituita dalle rampe pedonali fatte per accedere alla partenza della visita al piano superiore, occupa da sola una grande parte del volume dell'edificio portaluppiano, togliendo per converso spazio utile alle prime collezioni prestigiose del primo novecento prebellico.
Una soluzione certo geniale e di grande impatto, questa della spirale ascendente, che sicuramente vuole essere un omaggio all'architettura moderna wrightiana, del Guggenheim New York tanto ne ricorda l'essenza, e che riecheggia la grande, ma assai più ariosa e perfetta spirale ascendente del Reichestag berlinese di Foster, tante per sottolinearne forse ironicamente una moda. Ma vuole essere anche un "viaggio" d'ascesa anche nel mondo dello spazio quadridimensionale cubista (forse quello descritto perfettamente già nel 1941 da Sigfrid Giedion in "Spazio, tempo, architettura" in una delle prime analisi critiche complete dei prodromi della visione spaziotemporale indotta dalla nuova architettura ottocentesca della parigina torre Eiffel, che avrebbe esercitato la sua influenza sul cubismo, ma prima ancora sul futurismo).
Appena terminata la visita alle collezioni anticipatorie del Moderno lo sguardo del visitatore è attratto all'improvviso dall'ampia veduta su Piazzetta Reale che mostra il felice rapporto tra l'architettura piermariniana e il contesto moderno
E' un a "citazione" complessa, un po' compressa, dato lo spazio angusto ne quale vi è stata immessa, ma benvenuta nella "modernità" del progetto rotiano, questa dell'ascesa spiraliforme che accoglie il suo pubblico, proiettandolo negli aspetti più accattivanti della Nuova Arte, che il Novecento dichiara a grandi proclami raccogliendone gli infiniti linguaggi da tutte la precedente arte che l'ottocento già può vantare moderna. E' quindi molto positivo questo primo elemento che Italo Rota e Fabio Fornasari hanno voluto assegnare alla città italiana che ha più di ogni altra ha dato volto al moderno novecentista più storicizzato e storicizzante, a partire del suo Futurismo.
E' quindi il miglior modo per portare gli spettatori davanti a Boccioni, a Carrà, a Severini, a Balla, e Sirono, a De Chirico. Di quest'ultimo alcuni frammenti della fontana della Triennale vi sono stati infatti apposti alla sua base, visibili dall'alto. Molto interessante anche l'involucro poliedrico in acciaio e vetro che ne costituisce il tamponamento in direzione di piazza del Duomo, il quale riassume tridimensionalmente il motivo decorativo tipicamente portaluppiano dei controsoffitti ai piani dell'edificio, e non poche altre icone della moderna architettura europea del novecento.
Dobbiamo solo lamentare una realizzazione pochissimo curata nel dettaglio, come purtroppo spesso accade in tanti, troppi edifici italiani più recenti, che patiscono la non facile situazione che ha determinato una normativa sugli appalti che poco serve allo scopo di abbassare i costi di costruzione e moltissimo invece a peggiorare la qualità dei prodotti (vedi anche, ci è capitato di constatare, i pessimi risvolti realizzativi dello Scrigno della Pinacoteca di Marella e Giovanni Agnelli al Lingotto di Torino, opera di Renzo Piano, per sottilineare il medesimo fenomeno).
La cosa che più ci ha sconvolto è stato l'inserimento, lungo il percorso della spirale ascendente, in una stanzetta in essa ricavata, tutta nera, dell'enorme tela del Quarto Stato, di Pelizza da Volpedo, opera di enorme significato simbolico e iconico del Novecento, che non ha trovato, in questa soluzione, la sua giusta collocazione. Avremmo preferito, piuttosto, che fosse collocata alla fine, nell'enorme spazio terminale della mostra, in modo da avere una visione in lontananza assai più marcata e necessaria, di quanto non sia stato qui dato.
La stessa cosa dicasi delle collezioni più importanti del Museo, quelle dedicate al Cubismo, al Futurismo, alle prime opere di Sironi, di Carrà, di Picasso, di Carrà, e poi di Morandi, di Marini, di Usellini. Le sale ad esse dedicate sono anguste, troppo strette, o addirittura piccole nelle tre dimensioni. Questo è poi paradossale scoprendo poi invece che opere assai meno importanti di quelle sono state collocate in locali di grande dimensione ed altezza, quelle di Palazzo Reale.
Viene da chiedersi se non fosse posibile invertire i percorsi, e fare tutto il contrario, dato che, giustamente, il percorso principale del museo segue rigorosamente il criterio cronologico.
Non entriamo certo qui nell'analisi di questo quesito, anche perchè siamo certi che non fosse possibile, ma resta davvero deludente scoprire come alcuni tra i massimi capolavori di Boccioni, o De Chirico non riescano a vivere nel loro spazio ideale, quasi che ancora non abbiano trovato la loro deficitiva collocazione.
Personalmente ritengo che tutto il Museo dovesse essere diluito più verso la sua fine, spostandovi una buona parte di opere della prima parte entro la seconda, caso mai sacrificando un poco le opere di Castellani, Bonalumi, Melotti, Vedova, Schifano, Dorazio, o più ancora quelle di arte "povera", o "programmata", ecc.
Una della sale con le "collezioni di mezzo", con Capogrossi, Accardi, Vedova, Parmeggiani, Burri, e tanti altri
Segni del tutto positivi, anzi capaci di suscitare entusiasmo, sono dati, invece, dall'uso che Rota (con Fabio Fornasari) fa delle quinte perimetrali, dei setti murari presso le vicine architetture limitrofe milanesi, rese visibili, anzi impattanti, da opportuni tagli eseguiti ad hoc in essi con vetrate, o "vetrine" che ne esaltano la visione, a volte anche molto ravicinata, come avviene per San Gottardo, oppure per la Torre Velasca, per la stessa piazzetta Reale e per Piazza Duomo. Davvero geniale tale modo di trattare il rapporto tra l'interno e l'esterno! I percorsi, un poco labirintici e dispersivi, accompagnati dal cigolio continuo delle scale mobili, sono però resi assai piacevoli per le continue sorprese improvvise, costituite dai cannocchiali visivi sulle finestre gotiche del palazzo su via Marconi, o sul palazzo gemello dall'altra parte della stessa via, o sugli scorci sui tetti di Palazzo Reale, o sulle guglie del Duomo, oppure, addirittura, sulla stessa Sala delle Cariatidi.
La lunga sala terminale del museo, oggi poco utilizzata, che avrebbe potuto forse meglio collocare alcuni pezzi scultorei, quali le opere di Arturo Martini, Marino Marini, Fausto Melotti, oppure di artisti contemporanei, dalle cui posizioni lungo i percorsi attuali non sembrano aver tratto particolare risalto
Immensa sorpresa infine lo Spazio Fontana, all'ultimo piano, con la grande vista sulla linea luminosa al neon dello stesso artista, opera realizzata nel 1951 per la IX Triennale, visibile la notte, con effetto estremamente scenografico di geniale conio, dalla piazza del Duomo. Un bellissimo spazio, quest'ultimo, destinato all' opera, sì di un grande artista del Novecento, ma forse poco sbilanciato rispetto alle infelici scelte circa il collocamento di opere di pregio assai superiore, quali quelle delle avanguardie storiche, come sopra abbiamo detto, che lascia decisamente perplessi. da questo punto di vista si sollecita un deciso ripensamento che sia capace di assegnare gli spazi migliori alle opere che più ne necessitano, in particolare alle "opere-icona", che peraltro in questo bel museo abbondano.
E' un'opera, quindi complessivamente, questo museo che Milano dedica ai suoi stessi cittadini, ed anche alla sua offerta turistica in grande crescita, che forse costituisce una delle poche voci in crescita che la città possa avanzare a dimostrazione della sua prestigiosa storia in questo avvio di nuovo secolo, dopo i tanti anni trascorsi in cui ha dominato purtroppo "il lungo sonno della cultura milanese".
Milano, 16 dicembre 2010
Enrico Mercatali
(le fotografie sono di Enrico Mercatali)
Sopra: L'immenso Spazio-Fontana a doppia altezza, sovrastato dalla grande Struttura al Neon realizzata da Lucio Fontana per lo scalone di ingresso della IX Triennale del 51, e la stupefacente veduta sulla piazza del Duomo. Un'altra curiosità di questa sala è costituita dal controsoffitto in ceramica del livello inferiore, dalle misure eccezionali di 9 metri per 15, che l'artista fece nel 1959 per un albergo a Procchio (isola d'Elba).
Sotto: le bianche strutture della avvolgente spirale in ascesa, che dall'ingresso porta i visitatori alla sommità dell'Arengario, che sembra omaggiare il capolavoro wrightiano del Guggenheim di New York, organismo museale che, per primo nel novecento, concepì l'idea di una unica sala espositiva capace di coivolgere tutto il suo pubblico e le sue collezioni d'arte moderna in un unico abbraccio.
Terminato l'affollamento dei cittadini curiosi della prima settimana dall'apertura abbiamo fatto una visita all'interno del Museo del Novecento, per sperimentarne la sola architettura e gli ambienti, non tanto in relazione alle opere, per le quali faremo una apposita visita dedicandovi anche più tempo, quanto in relazione al suo pubblico e al suo rapporto con la città circostante, vista dall'interno.
Riguardo a questi due temi il Museo regge bene al primo impatto, e sicuramente regala un po' di quell'orgoglio che da tempo mancava ai milanesi, specie se non più appartenenti alle ultimissime generazioni, dei cui gusti e del cui rapporto con la città ancora non bene sappiamo.
La passerella che collega l'Arengario con le sale interne a Palazzo Reale è concepita per lasciare ruotare lo sguardo a 360°
Siamo stati senz'altro ben impressionati dalla dimensione complessiva del museo, dal fatto che esso non limita i propri spazi al solo edificio dell'Arengario, come pensavamo, ma riversa una buona parte di esso entro i piani superiori dell'ala destra di Palazzo Reale. Una dimensione perciò all'altezza delle collezioni, anche se non proprio di tutte le parti di esse. E' inutile dire come gli spazi più consoni alle diverse fasi ed ai diversi movimenti dell'arte del novecento sono proprio quelli ricavati dalle grandi sale del palazzo piermariniano, quanto meno per altezza dei locali, se non anche per le dimensioni in pianta dei medesimi.
E questo è apparso subito ovvio, per di più, al solo ingresso ed alle sue fasi che subito sono seguite, ovvero rendendosi conto che il grande congegno architettonico della spirale in salita, costituita dalle rampe pedonali fatte per accedere alla partenza della visita al piano superiore, occupa da sola una grande parte del volume dell'edificio portaluppiano, togliendo per converso spazio utile alle prime collezioni prestigiose del primo novecento prebellico.
Una soluzione certo geniale e di grande impatto, questa della spirale ascendente, che sicuramente vuole essere un omaggio all'architettura moderna wrightiana, del Guggenheim New York tanto ne ricorda l'essenza, e che riecheggia la grande, ma assai più ariosa e perfetta spirale ascendente del Reichestag berlinese di Foster, tante per sottolinearne forse ironicamente una moda. Ma vuole essere anche un "viaggio" d'ascesa anche nel mondo dello spazio quadridimensionale cubista (forse quello descritto perfettamente già nel 1941 da Sigfrid Giedion in "Spazio, tempo, architettura" in una delle prime analisi critiche complete dei prodromi della visione spaziotemporale indotta dalla nuova architettura ottocentesca della parigina torre Eiffel, che avrebbe esercitato la sua influenza sul cubismo, ma prima ancora sul futurismo).
Appena terminata la visita alle collezioni anticipatorie del Moderno lo sguardo del visitatore è attratto all'improvviso dall'ampia veduta su Piazzetta Reale che mostra il felice rapporto tra l'architettura piermariniana e il contesto moderno
E' un a "citazione" complessa, un po' compressa, dato lo spazio angusto ne quale vi è stata immessa, ma benvenuta nella "modernità" del progetto rotiano, questa dell'ascesa spiraliforme che accoglie il suo pubblico, proiettandolo negli aspetti più accattivanti della Nuova Arte, che il Novecento dichiara a grandi proclami raccogliendone gli infiniti linguaggi da tutte la precedente arte che l'ottocento già può vantare moderna. E' quindi molto positivo questo primo elemento che Italo Rota e Fabio Fornasari hanno voluto assegnare alla città italiana che ha più di ogni altra ha dato volto al moderno novecentista più storicizzato e storicizzante, a partire del suo Futurismo.
E' quindi il miglior modo per portare gli spettatori davanti a Boccioni, a Carrà, a Severini, a Balla, e Sirono, a De Chirico. Di quest'ultimo alcuni frammenti della fontana della Triennale vi sono stati infatti apposti alla sua base, visibili dall'alto. Molto interessante anche l'involucro poliedrico in acciaio e vetro che ne costituisce il tamponamento in direzione di piazza del Duomo, il quale riassume tridimensionalmente il motivo decorativo tipicamente portaluppiano dei controsoffitti ai piani dell'edificio, e non poche altre icone della moderna architettura europea del novecento.
Dobbiamo solo lamentare una realizzazione pochissimo curata nel dettaglio, come purtroppo spesso accade in tanti, troppi edifici italiani più recenti, che patiscono la non facile situazione che ha determinato una normativa sugli appalti che poco serve allo scopo di abbassare i costi di costruzione e moltissimo invece a peggiorare la qualità dei prodotti (vedi anche, ci è capitato di constatare, i pessimi risvolti realizzativi dello Scrigno della Pinacoteca di Marella e Giovanni Agnelli al Lingotto di Torino, opera di Renzo Piano, per sottilineare il medesimo fenomeno).
La cosa che più ci ha sconvolto è stato l'inserimento, lungo il percorso della spirale ascendente, in una stanzetta in essa ricavata, tutta nera, dell'enorme tela del Quarto Stato, di Pelizza da Volpedo, opera di enorme significato simbolico e iconico del Novecento, che non ha trovato, in questa soluzione, la sua giusta collocazione. Avremmo preferito, piuttosto, che fosse collocata alla fine, nell'enorme spazio terminale della mostra, in modo da avere una visione in lontananza assai più marcata e necessaria, di quanto non sia stato qui dato.
La stessa cosa dicasi delle collezioni più importanti del Museo, quelle dedicate al Cubismo, al Futurismo, alle prime opere di Sironi, di Carrà, di Picasso, di Carrà, e poi di Morandi, di Marini, di Usellini. Le sale ad esse dedicate sono anguste, troppo strette, o addirittura piccole nelle tre dimensioni. Questo è poi paradossale scoprendo poi invece che opere assai meno importanti di quelle sono state collocate in locali di grande dimensione ed altezza, quelle di Palazzo Reale.
Viene da chiedersi se non fosse posibile invertire i percorsi, e fare tutto il contrario, dato che, giustamente, il percorso principale del museo segue rigorosamente il criterio cronologico.
Non entriamo certo qui nell'analisi di questo quesito, anche perchè siamo certi che non fosse possibile, ma resta davvero deludente scoprire come alcuni tra i massimi capolavori di Boccioni, o De Chirico non riescano a vivere nel loro spazio ideale, quasi che ancora non abbiano trovato la loro deficitiva collocazione.
Personalmente ritengo che tutto il Museo dovesse essere diluito più verso la sua fine, spostandovi una buona parte di opere della prima parte entro la seconda, caso mai sacrificando un poco le opere di Castellani, Bonalumi, Melotti, Vedova, Schifano, Dorazio, o più ancora quelle di arte "povera", o "programmata", ecc.
Una della sale con le "collezioni di mezzo", con Capogrossi, Accardi, Vedova, Parmeggiani, Burri, e tanti altri
Segni del tutto positivi, anzi capaci di suscitare entusiasmo, sono dati, invece, dall'uso che Rota (con Fabio Fornasari) fa delle quinte perimetrali, dei setti murari presso le vicine architetture limitrofe milanesi, rese visibili, anzi impattanti, da opportuni tagli eseguiti ad hoc in essi con vetrate, o "vetrine" che ne esaltano la visione, a volte anche molto ravicinata, come avviene per San Gottardo, oppure per la Torre Velasca, per la stessa piazzetta Reale e per Piazza Duomo. Davvero geniale tale modo di trattare il rapporto tra l'interno e l'esterno! I percorsi, un poco labirintici e dispersivi, accompagnati dal cigolio continuo delle scale mobili, sono però resi assai piacevoli per le continue sorprese improvvise, costituite dai cannocchiali visivi sulle finestre gotiche del palazzo su via Marconi, o sul palazzo gemello dall'altra parte della stessa via, o sugli scorci sui tetti di Palazzo Reale, o sulle guglie del Duomo, oppure, addirittura, sulla stessa Sala delle Cariatidi.
La lunga sala terminale del museo, oggi poco utilizzata, che avrebbe potuto forse meglio collocare alcuni pezzi scultorei, quali le opere di Arturo Martini, Marino Marini, Fausto Melotti, oppure di artisti contemporanei, dalle cui posizioni lungo i percorsi attuali non sembrano aver tratto particolare risalto
Immensa sorpresa infine lo Spazio Fontana, all'ultimo piano, con la grande vista sulla linea luminosa al neon dello stesso artista, opera realizzata nel 1951 per la IX Triennale, visibile la notte, con effetto estremamente scenografico di geniale conio, dalla piazza del Duomo. Un bellissimo spazio, quest'ultimo, destinato all' opera, sì di un grande artista del Novecento, ma forse poco sbilanciato rispetto alle infelici scelte circa il collocamento di opere di pregio assai superiore, quali quelle delle avanguardie storiche, come sopra abbiamo detto, che lascia decisamente perplessi. da questo punto di vista si sollecita un deciso ripensamento che sia capace di assegnare gli spazi migliori alle opere che più ne necessitano, in particolare alle "opere-icona", che peraltro in questo bel museo abbondano.
E' un'opera, quindi complessivamente, questo museo che Milano dedica ai suoi stessi cittadini, ed anche alla sua offerta turistica in grande crescita, che forse costituisce una delle poche voci in crescita che la città possa avanzare a dimostrazione della sua prestigiosa storia in questo avvio di nuovo secolo, dopo i tanti anni trascorsi in cui ha dominato purtroppo "il lungo sonno della cultura milanese".
Milano, 16 dicembre 2010
Enrico Mercatali
(le fotografie sono di Enrico Mercatali)
Per correttezza dell'informazione le segnalo che il progetto non è del solo Italo Rota ma anche di Fabio Fornasari
ReplyDeleteMolte grazie della sua precisazione.
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