Lapo House
E' questo un progetto
affascinante per il solo motivo che è colmo di novità, di azzardi, di
scommesse, di intuizioni, di paradossi, di fughe in avanti.
Non è un caso che il suo
progettista, l'architetto francese Florent Lesaulnier, si sia ispirato, come egli dice, a Carlo Mollino, il rivoluzionario architetto torinese
già attivo negli anni '30 che, alla pratica dell'architettura, sapeva abbinare in modo artistico positivo quella di
corridore automobilistico, di esperto sciatore e di pilota aeronautico, lasciandosi affascinare da ogni genere di diversità. comprese quelle all'epoca considerate"scaldalose".
In tal modo, e forse solo da tali presupposti, l'architettura può veramente rigenerarsi, e forse ciò può valere anche per il mondo dell'imprenditorialità (quella che aleggia attorno alla figura di Lapo Elkann, onnivoro personaggio dalle svariatissime specializzazioni, alla quale essa si ispira) al quale essa anche partecipa, ed in qualche modo così convive anche in questo progetto, facendo sfoggio di reinvenzione, non accontentandosi di qualche superficiale o frammentario distinguo, ritoccando le mode imperanti.
In tal modo, e forse solo da tali presupposti, l'architettura può veramente rigenerarsi, e forse ciò può valere anche per il mondo dell'imprenditorialità (quella che aleggia attorno alla figura di Lapo Elkann, onnivoro personaggio dalle svariatissime specializzazioni, alla quale essa si ispira) al quale essa anche partecipa, ed in qualche modo così convive anche in questo progetto, facendo sfoggio di reinvenzione, non accontentandosi di qualche superficiale o frammentario distinguo, ritoccando le mode imperanti.
Come nella casa di Capo Massullo (Capri), di Libera-Malaparte, non esistono qui parapetti. sull'immenso vuoto del panorama Il parapetto è davvero uno strumento per le masse, indice di quotidianità squallida e scontata. Qui vi è infatti bandita, ed ottant'anni più tardi, si ripete simbolicamente, anche attraverso questo piccolo segno, l'urlato anelito di libertà, nella sua versione più individualistica. Esso però è un urlo realmente rigenerante, come la storia, anche dell'architettura, insegna. Lo stesso futuristico mito della guerra rigenerante, guarda caso, qui vi è rievocato, neppure tanto larvatamente, con quella pelle mimetica che vi compare, lasciando immaginare quest'acqua nelle paludi che affiancavano il Mekong, affollate di Vietcong, piuttosto che in placide distese d'orizzonti vacanzieri.
Non possiamo dire che questa casa sia bella, secondo canoni ai quali siamo abituati, o che tantomeno sia solare e serenante. Anzi ci appare un po' cupa e inquietante. Colpisce, di essa (non si sà se commissionata o semplicemente ispirata all'omonimo imprenditore torinese da cui prende il nome) la straordinaria inconsistenza sia strutturale che dell'involucro, nonchè l'inedito rapporto tra la concezione razionalista e l'arcano acquatico inserimento paesistico, la cui pelle richiede stranamente di mimetizzarsi. La stessa sua funzione ne risulta da tutto ciò quasi compromessa, priva come è d'un qualsiasi aggancio con la realtà.
Un luogo per l'isolamento ed una vita in tranquillità? Non sembrerebbe dalla assoluta assenza di supporti alla quotidianità (servizi, camere?), oppure ove mettersi in meditazione? Le poche e scarne funzioni, tutte incentrate sul personaggio che anche se assente impregna i muri della sua prresenza, ricordano quelle della casa di Capo Massullo (Libera-Malaparte), anche se in contesti diversi: ampio locale aperto solo sull'infinito unidirezionale, caminetto quale fondamento d'un calore che non c'è, onirica scala alla superiore terrazza protetta agli sguardi, anch'essa, come là, per vivere l'immensità dell'aria, della luce, del sole, o la brezza fresca della notte. Come quella, anche questa parla i linguaggi dell'ambiguità, dai contorni di supence poco delineabili.
Il soggiorno di Lapo House è una ampia superficie di 370 mq di pianta libera, difficilmente catalogabile. Si fatica ad immaginarne un uso che non sia quello d'ambientarvi un film di Jan Luc Godard, ove si muovano al massimo un paio di personaggi incomunicabili, che muovano da un piano all'altro alla ricerca d'una collocazione stabile, senza trovarla, rincorrendosi e distaccandosi tra pause di lunghi silenzi.
Da qui se ne può dedurre una destinazione fontamentalmente rappresentativa, od auto-celebrativa: qualcosa che stia tra l'esigenza di provarsi, di sperimentarsi, e quella di comunicare uno stile, che occorre a vestire un personaggio, a creare un mito ed a moltiplicarlo nell'immaginario del suo pubblico. Ne esce un'opera architettonica surreale perchè proiettata, più che in un sogno più o meno ludico, più o meno collocato nei contorni del fantastico-infantile (come tante ne abbiamo viste anche nel recente passato), in un astratto e anomico mondo di fantascienza, dai poteri illimitati.
Renderings del modello sezionato e visto dall'alto, che rivela l'essenzialità della scatola rispetto alla struttura della sua pelle. Come un crostaceo la forza è tutta esterna, per proteggere un involucro fragile ma fortemente tecnologico. le ampie intercapedini non solo proteggono dagli eventi esterni e ne isolano l'ambiente interno, ma consentono, come profetizzava Reiner Banham negli anni '60, "the well tempered environment", mediante massiccio utilizzo di tecnologia. Questo è però forse il limite imposto da nuove regole scritte negli anni '10 del secolo successivo, allora non previste.
Non è estranea la cultura francese da tal genere di esiti. Pensando a un percorso che Jean Prouvé collega a Yona Friedmann, salutiamo tal genere di proposta come fattore di utile fermento, come segnale d'una ripresa benefica di creatività, dalla "testa nelle nuvole" ma anche in grado di vantare, con l'ottimismo dell'enigma, la concretezza "dei piedi per terra".
Enrico Mercatali
Lesa, 19 maggio 2013
(dedicato a Vanessa P.)
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