Il duplice approccio oriente-occidente
ci aiuta a capire gli spazi che viviamo
Sopra e sotto al titolo: Tre immagini delle vedute esterne (sopra) ed interne (sotto) di Ville Savoye (1928-31) di Le Corbusier e Pierre Janneret a Poissy presso Parigi, di Casa Farnsworth (1945-51) presso Chicago, di Ludwing Mies van der Rohe e di Fallingwater (1935-39) di Frank Lloyd Wright, presso Bear Run in Pansylvania
Taccuini Internazionali ha visitato le tre case più pubblicate al mondo, opera di noti maestri dell'architettura moderna, per rilevare ed annotare aspetti ai quali i più prestigiosi critici e storici dell'architettura hanno dato scarsa importanza: abbiamo, per così dire, "testato" la vivibilità dei loro ambienti interni.
(Continua)
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Di esse, in questo articolo, vi daremo un nostro giudizio, aggiungendovi alcune interessanti ed utili notazioni storiche.
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Di esse, in questo articolo, vi daremo un nostro giudizio, aggiungendovi alcune interessanti ed utili notazioni storiche.
Qui sopra tre immagini degli ambienti principali di Ville Savoye a Poissy, presso Parigi, di Le Corbusier e Pierre Janneret (1928-31)
Ville Savoye (1929-30)
Le Corbusier e Pierre Janneret
Inquadrando questa villa tra le più ampie e prestigiose
della serie di ville che Corbu realizzò con il cugino Pierre alla fine degli
anni ’20, essa appare, quale ultima della serie di case private nate dalla
sperimentazione delle teorie razionaliste dei loro autori, la più completa e
consona a spiegare pregi e difetti del nuovo modo di costruire e di concepire
una poetica del nuovo purismo internazionalista europeo, del quale il loro
Studio parigino è stato il più convinto propugnatore.
Concepita per una vita suburbana per i mesi estivi, a
stretto contatto con la natura dei boschi attorno a Parigi, essa è
l’espressione di quanto potessero desiderare, per autorappresentarsi nell’alta
società parigina ma anche per vivere modernamente la propria vita familiare, i
facoltosi Savoye, i quali la commissionarono senza troppo badare allo “stile”,
quanto certamente alla funzionalità dei suoi spazi, ma successivamente anche e soprattutto al contenernimento degli esorbitanti
costi, dopo aver convinto gli autori a rivederne più volte, per questo, i
progetti.
Alla fine dei lavori la storia della villa parla di numerosi
litigi tra proprietari e professionisti, e di un possibile ricorso alle vie
legali, dovuti allo smisurato sforamento dai preventivi, ma soprattutto ai
numerosi difetti riscontrati, specialmente quelli derivanti da abbondanti
infiltrazioni di acqua piovana in più punti della casa riscontrabili
prevalentemente a seguito dei potenti acquazzoni di fine estate, che furono il
vero incubo di Madame Savoye. La cosa è comprensibile, data la tipologia della
costruzione, soprattutto per i materiali e le tecniche di allora, ma anche
strana, data la proverbiale cura adottata dallo Studio per i dettagli
costruttivi, spesso anche innovativi, particolarmente concentrata proprio sulla
serramentistica e sugli scarichi delle acque meteoriche delle terrazze pensili.
Nessun’altra notizia ci è giunta, viceversa, circa
l’apprezzamento da parte dei committenti dell’opera nel suo complesso, e circa
l’abitabilità da loro sperimentata degli interni.
Come spesso avviene per le architetture che hanno “fatto
storia” anche Villa Savoye è oggi museo di sé stessa, da che fu risolto lo
stato di cronico abbandono (di cui già parla Leonardo Benevolo nella sua
“Storia dell’architettura moderna” del 1965), dopo il più recente restauro.
Certo nulla di più che un intonaco bianco è in grado di
mostrare il proprio deperimento negli anni. Ma il problema non sembrava
mostrare soverchio interesse per Le Corbusier, né lo stato dell’arte produttiva
di quei tempi poteva offrire nulla di paragonabile a quanto oggi si possa
trovare sul mercato di tali prodotti di rivestimento e di finitura esterna per
gli immobili. Noi siamo però anche dell’idea che le nuove tecniche di
rivestimento (adottate ad esempio da chi oggi ancora mostra interesse per il
vocabolario corbusiano, come per il caso di Richard Meier, rivisitandone in
chiave maggiormente tecnologica gli assunti) non abbiano aggiunto di più, ma semmai hanno tolto, in termini di
valore poetico e di genuinità espressiva.
E’ significativo comunque come, una architettura domestica
nata sulle premesse di un riscatto sociale che con essa si sarebbe dovuto
ottenere, d’una casa alla portata di tutti, e di un linguaggio che vi
rispondesse per semplicità, razionalità e funzionale salubrità, nella realtà
diede risposta a esigenze d’altro tipo: rappresentatività ed autocompiacimento
di ceti sociali abbienti, prevalentemente intellettuali (particolare fu il caso
del “fedele entusiasmo” di Raoul La Roche che fece fotografare la sua casa
quale “modello di architettura” dal più celebre fotografo francese di allora,
Boissonas, e che andava vantandosi del fatto che nella realtà la casa appariva
ancor più bella che in fotografia, con quella sua unica “sinfonia di prismi”,
ma visti altrove.
Quali erano i fini ultimi che Le Corbusier si prefiggeva
d’ottenere con la sua architettura, tra gli anni ’20 e i ’30, specialmente
all’interno del suo programma di divulgazione teorica che faceva di tutto per
rendere visibile e di dominio pubblico?
E’ chiaro che l’ideale platonico, che per la sua
architettura egli promuoveva, nel rapporto intimo e forte tra uomo e natura,
più ancora di quanto non si prefiggesse con il suo purismo pittorico, vi veniva
professato in ogni occasione: articoli, conferenze, interviste, ecc.. Esso prevedeva precisi paradigmi applicabili
in ogni situazione, tutti riassunti nei famosi 5 punti di “Verso
un’architettura” (pilotis, finestrature a nastro continuo, tetto piano
praticabile a giardino pensile, pianta libera, facciata libera), nati per una
nuova vivibilità, una nuova salubrità, un nuovo rapporto interno-esterno, una
nuova esperienza dell’abitare. Esso diveniva, in ogni occasione che gli si
sarebbe presentata d’applicarli, inevitabile motivo di nuova ed ulteriore
propaganda, forse l’unica cosa che davvero interessava all’architetto.
Circa il rapporto che, con gli spazi e le funzioni di questa
casa, così come era accaduto nelle precedenti dell’intero decennio, dovessero
avere i suoi proprietari, era affare che nulla aveva a che vedere, per Le
Corbusier, con le persone stesse, in carne ed ossa, e tanto meno con le loro
esigenze psicologiche più personali. Esso doveva rispondere unicamente
all’assunto generico ed universalmente applicabile d’una esperienza tipo, di
una persona tipo (quella dal Modulor?) che Corbu andava costantemente
ricercando ed enfatizzando, di progetto in progetto, come ampiamente dimostrano
i suoi schizzi, come per inseguire un suo stato d’ebbrezza, una sua
personalissima ed acrobatica drammatizzazione del divenire umano nella storia.
Nel giudicare oggi, alla luce di uno sguardo meno
agiografico e più realista dei bisogni universalmente sperimentabili di chi
vive in una casa, possiamo osservare che davvero possente e di grande effetto è
il rapporto interno-esterno del grande soggiorno e del grande patio esterno
terrazzato della casa Savoye, mentre la scelta dello spazio continuo interno,
privo o quasi di separatori, ivi incluso quello del corpo-scala, rende fredda e
indeterminata la vivibilità interna della casa, creando un senso di smarrimento
e scarsa identificabilità nei suoi spazi, nei suoi angoli ed anfratti, ove
collocarsi nei diversi momenti della giornata. Concorrono a tale negativa sensazione
gli arredi fissi, pur tanto graditi al suo autore, talvolta miseri, o
insufficienti, talvolta ingombranti, le soluzioni di collegamento tra i piani
interni ed i livelli della casa, le cui finiture non casualmente ricordano
un’esperienza navale. Mentre bisogna riconoscere l’obbiettiva riuscita della
compenetrazione spaziale dei due ampi soggiorni, quello interno e quello
esterno (separati unicamente dalla grande vetrata a tutta altezza, ed
accomunati dal continuum della finestratura a nastro ad essa ortogonale, che
aggiorna le diverse fasi solari della giornata sulla natura circostante, vista
come dentro a un quadro, ma capace anche tra l’altro di determinare una
adeguata privacy dell’intero piano principale della casa. Le stesse componenti
verdi (che Corbu affidava regolarmente a Lucien Crépin nonostante le sue
altissime fatture che spesso causavano caustici litigi con i committenti), che,
coerentemente ai suoi principi avrebbero dovuto essere ricche ed abbondanti,
risultano invece assai misere, come le vasche che le contengono. Non è un caso
che non una sola delle numerosissime foto, sia d’epoca che odierne, dalla Ville
La Roche del ‘23 alla ville Savoye del ’30, sia in grado di mostrare una
qualche abbondanza di verde. Bisogna anche dire che anche questa del verde
pensile fosse forse un’utopia, essendo necessarie, per ottenerne i più
soddisfacenti effetti, tale dosi massicce d’impiantistica ad essa dedicata che
forse neppure oggi possano essere ottenuti se non a fronte di costi
elevatissimi d’istallazione e di gestione.
Enrico Mercatali
Edificazione
futuribile dal gusto decisamente retrò.
Seppur
sovraelevata mantiene una base centrale di rapporto stabile con l’ambiente e
nella parte superiore scopre armonie che nella loro alienità si armonizzano
alle richieste del Qi che predilige i movimenti circolari.
La
parte centrale della casa subisce una forte onda di informazione che penetra
dal basso verso l’alto, compensata da un’energia Qi altrettanto forte che
scopre un moto orizzontale e circolare nel piano soprastante.
Una
casa con caratteristiche che ben ispirano la meditazione esoterica, con precise
caratteristiche indicate ai templi di molte discipline religiose sia in Oriente
che in Occidente.
Vanessa Passoni
Qui sopra tre immagini degli ambienti principali di Casa Farnsworth (1945-51) presso Chicago, di Ludwing Mies van der Rohe.
Farnsworth house (1945-51)
Ludwig Mies van der Rohe
Mies fu
scelto dalla facoltosa cliente, Edith Farnsworth, aspirante violinista e poi
famosa nefrologa, proprio tra i tre architetti che aprono questa rubbrica
(Mies, Wright e Corbu), i cui nominativi le erano stati sottoposti da un amico
quando gli manifestò l'intenzione di farsi costruire una casa per i suoi
week-end di riposo. Ma Mies fu selezionato non tanto per ragioni professionali
quanto per comodità di vicinanza. Quando ebbe l'incarico di realizzare la villa
su di un terreno di 4 ettari molto isolato, entro i boschi attorno al fiume Fox
presso Plano, Illinois, a 47 miglia ad Ovest di Chicago, ed iniziò ad eseguirne
i progetti, si avviò tra i due un idillio amoroso, che durò un paio d'anni,
tanto fu lungo il periodo di gestazione del progetto, fino all'inizio dei
lavori, che ebbero una durata di altri due anni circa. Se fino allo stato
avanzato della costruzione quella intensa ma distensiva situazione ebbe a
durare, così non fu nella seconda parte dei lavori e negli anni che seguirono:
i primi litigi tra committente ed architetto arrivarono al punto che la signora
intentò una causa contro Mies, per diversi suoi malcontenti inerenti il sistema
di protezione della casa ed i suoi tendaggi, ma soprattutto per ragioni
economiche, che vedevano notevolmente accresciuti i costi preventivati ed
all'inizio concordati. Racconta Franz Schulze, nella sua nota biografia
di Mies del 1985, che egli ebbe la meglio, dovendo restituire alla cliente solo
una minima parte dell'enorme somma richiesta quale risarcimento, ma che restò
in lui una amarezza che, poco cavallerescamente, divenne pubblica con una
frase: "La signora si aspettava anche l'architetto insieme alla
casa". Tutto infatti sembrò precipitare forse proprio per una delusione
amorosa. Lei, pubblicamente nota per essere donna di grande cultura, ebbe a
dire di lui: " Forse come uomo non è quel chiaroveggente primitivo che
pensavo, ma semplicemente l'uomo più freddo e crudele che abbia mai conosciuto.
Forse ciò che voleva non è mai stato un amico o un vero collaboratore, per così
dire, ma un babbeo e una vittima". Certo è che se quel prodotto, così
unico quanto a idea, soprattutto per quel tempo, ebbe a realizzarsi, fu
unicamente per una grande consonanza di vedute tra la committente ed il
professionista.
La casa fu
venduta nel 1962 a Peter Palumbo, impresario edile di Londra, che l'acquistò
per una venerazione particolare da lui ammessa per l'architettura di Mies,
tanto da averne seguito pedissequamente i consigli, quali quelli di non mettere
quadri alle pareti, ma, volendo circondarsi d'arte, solo sculture; oppure
quello di rimuovere gli schermi che l'inquilino precedente aveva posizionato
sulla terrazza per difendersi dalle abbondanti ondate di zanzare, e dall'eccesso
di calore nelle giornate estive, sostituendole con alcuni poco funzionanti
accorgimenti, quali grandi ventilatori negli angoli della casa, e lasciare
aperte porte e finestre, rischiando gli attacchi dei pericolosi insetti. Ma
Peter Palumbo ebbe a dire che era per lui accettabilissimo il dover sopportare
alcuni piccoli fastidi, quali quello delle zanzare, del caldo d'estate durante
le ore meridiane, la condensa dovuta a scarsa ventilazione, ecc, per
evere in cambio la bellezza e la grandezza delle visioni che della natura offre
la casa, nella sua quiete e nell'evolvere delle stagioni, "luogo di
nutrimento spirituale dovuto alla bellezza riduttivista del posto".
"Una bellezza immensament convincente. La pura geometria della casa e le
impeccabili proporzioni delle sue parti sono espressioni di una presenza umana
in armonia con l'ambiente naturale dei boschi. Vista dall'interno e sotto
l'angolazione di 360° attraverso le pareti trasparenti, la natura, in modo
particolare quando cambiano le luci e le stagioni, penetra e diventa parte
integrante dell'esperienza di tutto il tempo passato qui". Aggiunge
Schulze: "Casa Farnsworth è un progetto classico con implicazioni
romantiche, un'opera d'arte che trova una mediazione, attraverso
l'architettura, tra uomo e natura. In questo senso essa evoca lo spirito di
Schinkel."
L'entusiasmo
fortemente interiorizzato col tempo, sia del suo secondo proprietario (che vi
soggiorna pochi giorni all'anno, e che probabilmente doveva farsi vanto d'aver
acquistato una così importante opera d'arte), sia del grande critico
dell'architettura (che ne ha sposato pienamente lo spirito pur senza abitarvi)
hanno saputo fare strame d'ogni altra obbiettiva considerazione.
Forse più
di ogni altra opera d'architettura, questa di Mies, sembra essere l'antitesi di
ciò che sia una casa, icona stessa della protezione che l'uomo esige nei
confronti della natura: le sue superfici vetrate perimetrali non concedono
tregua all'idea stessa della privacy (per quanto la proprietà fosse ampia
tutt'attorno). L'osmosi generalizzata delle funzioni tra di loro è tale che non
vi si distinguono gli spazi della notte da quelli per il giorno, le zone
spogliatoio da quelle di servizio: solo pochi cenni, perlopiù derivanti
dall'arredo mobile, segnalano qui il pranzo, e là il focolare, qui il relax, e
la il sonno. Tutto vi è mischiato. Come possa praticarsi agevolmente, e
soprattutto piacevolmente, una cucina che dà le sue spalle alla luce e che
costringe a cucinare senza poter guardare, appunto, verso l'esterno? Come possono
dirsi comodi gli spazi destinati ad un soggiorno concepito come fosse un
padiglione espositivo? Perchè posizionare il caminetto dalla parte opposta
degli esterni, così da impedirsi il godimento del panorama mentre arde la
fiamma? Occorre ben tener presente che, nelle ore serali e notturne, gli
interni della casa riflettono sui cristalli perimetrali così impedendo
totalmente la visione dell'esterno, a meno di non invertire totalmente
l'illuminazione interno-esterno, a discapito del primo, per incentivare il
secondo. Decisamente diversa è la situazione durante il giorno, specie col bel
tempo, ove diventa assai gradevole, dall'interno della casa, la visione degli
esterni. Ma con quale tempo, ed in quali stagioni? Certo non quando fuori
infuria un temporale (potete solo immaginarvi la situazione?), oppure nei mesi
invernali (sembra che nella casa si soffrisse molto il freddo, dato che il
massimo spessore delle vetrate, allora, fosse di 5 millimetri, quello appunto
adottato da Mies, e non esistendo ancora il vetro doppio isolato), o nei mesi
estivi, dei cui fastidi già più sopra abbiamo fatto cenno (la casa si
trasformava letteralmente in un forno).
Crediamo
che, l'immenso successo che la casa Farnsworth, così da farla entrare nella
storia dell'architettura moderna come un capolavoro, possa unicamente spiegarsi
con la tendenza agiografica che la storiografia ha adottato, rispetto
alla capacità dei suoi autori di immaginare e rappresentare la qualità
unicamente come nuovo, e il bello come criticamente collocabile in un'area
astratta nella quale l'evento di novità corrisponde a una pura espressione
artistica senza altro fine che l'estetica pura. Oggetti da ammirare, e della
cui bellezza bearsi, senza neppure pensare un momento che devono anche essere
vissuti, oppure dando a quest'ultima componente un ruolo marginale. Oggetti da
fotografare per essere pubblicati su riviste a larga diffusione od inseriti nei
libri di storia dell'evoluzione del gusto.
Alcune
domande a Mies: quella cucina, che lei ha voluto peraltro tanto preziosa da
doversi scontrare con la committente circa il suo costo, non sarebbe stata
preferibile se inserita trasversalmente al corpo-servizi, così da poterla
utilizzare colloquiando con i commensali, potendosi godere in quel mentre la
vista del parco, e potendola in tal modo anche magari meglio ventilare?
Un aspetto
della casa meno simile ad una sala d'aspetto aeroportuale, o d'un ufficio di
rappresentanza, non avrebbe consegnato alla sua committente maggiori conforts
psicologici?
Senza
voler entrare poi nelle questioni ergonomiche degli stessi arredi che lei
stesso ha disegnato, e nella loro essenza squisitamente aderente al minimalismo
programmatico del quale lei è stato autorevolissimo propugnatore, la loro
risicata quantità ed il loro posizionamento necessariamente così preciso ed in
punta di piedi non rischia di creare disagio bloccando la spontaneità di
comportamento degli eventuali ospiti, se non quello stesso di chi vi abita, sia
pure colui che, avendo voluto ed approvato tale ambiente, ha deciso di
"mettersi in vetrina", esaltando quanto più fosse possibile il suo
indiscutibile egocentrismo?
Non a caso
l'esempio fu subitaneamente seguito da quel pubblico trionfo d'autostima che
era Philip Johnson, allievo di Mies e futuro guru dell'architettura americana,
che nella sua Glass House a New Canaan, fece, per se stesso, una scelta
pressochè identica.
Enrico Mercatali
Ambiente
etereo, sopraelevato dal terreno, senza basi o fondamenta, né radici con la
terra o la tradizione. La pretesa leggerezza di questa edificazione non si
armonizza con l’ambiente troppo razionale e controllato che la circonda.
Gli
aspetti psicologici connessi a questa costruzione si legano a un fortissimo e
invasivo passaggio di Qi Universale, che si manifesta nel disagio provocato
dalla totale mancanza di intimità e protezione.
Gli
ambienti sono totalmente esposti in una totale continuità fra dentro e fuori,
non c’è alcun luogo di questo ambiente in cui sentirsi “in utero” e ogni
cambiamento atmosferico, dalla pioggia al sole cocente, è sicuramente
controllato con un grande consumo d’elettricità se non sono previsti pannelli
solari sul tetto.
Ambiente
adatto a ristorante o come padiglione estivo.
Vanessa Passoni
Qui sopra tre immagini degli ambienti principali di Fallingwater (1935-39) di Frank Lloyd Wright, presso Bear Run in Pansylvania
Fallinwater (1934-37)
Frank Lloyd Wright
Fu questa casa, che l’architetto americano costruì proprio
sopra a una cascata, nel folto dei fitti boschi presso Mill Run, in
Pensylvania, tra il 1934 e il 1937, a mettere in diretto contatto critico le
nuove teorie architettoniche che si erano sviluppate in Europa, ad opera
specialmente di Le Corbusier, con quelle americane, il cui massimo esponente
del momento, Wright appunto, le aveva fatte discendere direttamente da quelle
di Henry David Thoreau e di Ralph
Waldo Emerson, e, tramite Louis
Sullivan, a quelle di Walt Withman.
Ma le differenze tra queste e quelle teorie dovevano restare
comunque notevoli, nonostante
l’architettura moderna occidentale stesse per entrare nella sua età
matura: nella casa sulla cascata,
Wright elabora un edificio che sà stupire il mondo, sia per le sue arditezze
strutturali che per la giustapposizione dei propri volumi puri, per la prima
volta scevra da ogni simmetria e da ogni
tipo d’ornamento esteriore, in un ambiente totalmente naturale, cosa
quest’ultima del tutto nuova nella sua architettura fin lì conosciuta. Ciò che
accomunava questa architettura a quella europea, e corbusiana in particolare,
era appunto la totale libertà da ogni schematismo di pianta e di facciata nonché
la liberazione da vincoli compositivi che facessero pensare a elementi del
passato. Ma restavano enormi però anche le differenze. Tra queste la principale
era, per Wright, che
l’architettura dovesse fare riferimento diretto ed esplicito al sito, divenendo
organica ad esso, ossia adattarvisi, ed addirittura ispirarvisi, alle
condizioni orografiche, climatiche, culturali del suo intorno, mentre, si sa
che in Europa, e non fu certo Le Corbusier il primo anche se uno dei suoi
maggiori sostenitori, l’architettura doveva essere espressione di un nuovo
internazionalismo, basato su criteri di molteplicità e ripetibilità,
esattamente come avveniva nel campo delle macchine e di tutto quanto veniva
prodotto dall’industria, standardizzando quanto più fosse possibile i propri
componenti, e prefabbricando il più possibile ogni sua parte. Se in Europa la
“machine a habiter”, attraverso la corrente funzionalista del Razionalismo
internazionalista, poteva collocarsi indifferentemente in ogni luogo, in città,
al mare o in alta montagna, costruendo così, all’interno di questa griglia
metodologica, anche i valori una propria “scena poetica” derivata proprio dalla
forte contrapposizione tra la bianca stereometria modernista ed il suo rapporto
coi luoghi, naturali o storici, in America restava invece sempre preminente la
logica derivante da una bellezza che traesse la propria origine dall’adattamento al luogo
stesso, e dalla capacità che l’architettura aveva quasi di mimetizzarsi in esso,
e di amalgamarsi a quanto di esso aveva di maggiormente impattante sui sensi
dell’uomo, vuoi la natura selvaggia, vuoi l’ambito urbano, vuoi quello
agricolo.. Un approccio quindi completamente diverso coi luoghi: se quello
europeo gli eventi naturali si ritenevano domati tanto da poterne usufruire
finalizzandoli alla salubrità e al benessere fisico, negli Stati Uniti se ne
esaltavano ancora, romanticamente, gli effetti sulla psiche, cogliendovi
l’influsso positivo sull’uomo che,
per quanto di irrazionale e
mistico, la natura sapeva sempre evocare, entro uno spirito di scoperta e di
adattamento.
Fallingwater fu realizzata per il magnate dei grandi
magazzini Edgar J. Kaufmann, ambìto committente d’architetti (sua anche la casa
che fece erigere da Richard Neutra a Palm Springs nel 1946). Forse la “Casa
sulla cascata”, l’architettura più pubblicata del moderno, appena realizzata
travalicò l’ambito specialistico
per divenire icona stessa delle nuove frontiere dell’arte americana. Se i suoi
piani sbalzati a pelo d’acqua seppero immediatamente conquistare gli elogi
della pubblicistica di mezzo mondo, per le loro affascinanti e cristalline
geometrie, altrettanto dicasi dei suoi lussuosi interni, tanto “americani” nel
loro tradizionale giustapporsi di materiali e di colori naturali, quanto capaci
di proiettare in essi l’intero sogno americano d’una esperienza d’avventura.
Riguardando l’ambiente che si vive in Fallingwater, cercando
di respirare l’aria che vi circola e che mescola così intensamente gli interni
con gli esterni e viceversa, scrutando negli angoli della casa e dei suoi ampi
locali si può essere certi di una cosa: viverne i suoi spazi deve essere una
esperienza intensa, come molti dei suoi visitatori hanno dichiarato dopo
esservi stati a seguito delle recenti ristrutturazioni in funzione museale, al
limite d’una esaltazione tutta particolare. I suoi proprietari ne furono
entusiasti non appena ne presero possesso, come dicono le cronache, ma va anche
detto che se essa fosse stata una casa d’abitazione, anziché un rifugio da
week-end, tutto espressamente giocato sull’avventuroso rapporto con lo scorrere
dell’acqua a partire dall’appesa scaletta sottostante fatta apposta per
tuffarvisi dentro, come voluto dai
committenti fin dall’attribuzione dell’incarico, essa sarebbe certamente stata
un fallimento. Gli interni, di smisurata ampiezza (esaltati da un anomalo
rapporto con la scarsa altezza dei locali) sono forse solo una vetrina per le
ambizioni di Edgar e della sua famiglia, il trionfante caminetto ed il relativo
gigantesco bollitore dell’acqua, fondato direttamente sulla roccia che
trasforma il ruscello in rumorosa cascata, altro non è che la trasposizione
teatrale in versione aggiornata d’un pionieristico bivacco d’emersoniana
memoria, cui fa da contraltare una decorazione interna ancora soverchia ed
inutile, densa di modanature lignee di forte spicco, capaci di drammatizzare
ulteriormente ciò che già appare ansiogeno di suo. Crediamo non fossero
possibili sonni tranquilli in quella casa, e forse neppure un sereno rapporto
con la sua circostante natura. Non sappiamo nulla circa l’uso che i proprietari
ne fecero col tempo. Sappiamo però che, per le altre loro case, cambiarono
architetto.
Enrico Mercatali
La
peculiarità di questa casa è l’essere direttamente costruita sopra un corso
d’acqua.
L’acqua
ha una memoria molecolare, organizzata in cluster, che è in grado di
influenzare l’ambiente circostante modificando i programmi biologici di tutti
gli esseri viventi. Vivere nei pressi di un corso d’acqua necessita per cui di
accortezze precise.
Viverci
sopra, e aggiungervi inoltre la vitalità impetuosa di una cascata, necessita di
ulteriori maggiori precauzioni che solo la forma massiccia e rettangolare del
terrazzo protegge in parte. La casa è infatti inglobata in un terreno roccioso
e i molti minerali presenti
entrano in inevitabile risonanza con gli effetti causati dall’acqua e
amplificati dalla cascata.
In
questo modo si riversa uno Yin-Yang molto forte e archetipico verso
l’abitazione.
In
Oriente sarebbe impensabile edificare un edificio con queste caratteristiche
senza prevedere armonie funzionali che permettano all’energia Qi, prodotta dal
potente flusso dell’acqua, di ascendere verso l’alto. Una “fortezza” come
questa sarebbe considerata luogo esclusivamente adatto alla raccolta di truppe
militari e animali.
Vanessa Passoni
Qui sopra tre angoli di servizio delle tre case esaminate, assai più significative degli ambienti principali per capire le tre diverse personalità dei rispettivi architetti e per entrare maggiormente nel vivo dello spirito che ha animato i loro differenti approcci architettonici. nella villa corbusiana il bagno presenta il primo tentativo di concepire gli spazi della toilette in modo meno misero e strattamente funzionalista, in una fase storica nella quale scarsissima attenzione veniva concessa a tali locali, se non nelle case dell'aristocrazia o dell'alta borghesia industriale. Tentativi d'espressione cubista ammiccanti ad un domestico benessere corporeo ancora non entrato in uso corrente. Veramente scadente la concezione miesiana dello spazio-cucina, visto come puro luogo di transito, capace solo di far rimpiangere le care vecchie grandi cucine della tradizione mitteleuropea, ove si cucinava ed anche si stava per pranzare. Vince qui la concezione americana del "cook and ride", magari per preparare frequenti drinks da consumare sui divani. Più intimo ancora invece il richiamo americano alla tradizione del cenare in luogo rustico, concentrati attorno alla tavola familiare. Ma perchè tanto impegno nel collocare la casa nel punto più panoramico e selvaggio della regione, dentro alla foresta e sopra la cascata, per poi vedersi costretti a cenare senza neppure una finestra, circondati da pareti che sembrano quelle d'una caverna? Se fosse ancora vivo Bruno Zevi rivolgerei a lui questa domanda.
Le tre case di cui qui si è parlato costituiscono, ognuna per sè, un manifesto della nuova frontiera architettonica, un esempio di cosa poteva dire e fare il nuovo linguaggio del costruire, tra gli anni '20 e '30, quali soluzioni innovative nell'intendere un più ampio rapporto uomo-natura nell'abitazione privata. Confrontando il panorama architettonico dell'epoca in cui queste case vennero costruite dobbiamo continuare a dire che esse furono davvero un salto verso il futuro, assai più di quanto non riescano ad essere gli esempi dell'odierna avanguardia. E' chiaro però che in essi sussistono anche i difetti dei quali qui abbiamo voluto dire, anche perchè è davvero difficile, e forse impossibile, concepire innovazione che sia al contempo di forma e di contenuto, in modo totalmente esaustivo rispetto alle molteplici esigenze che da essa se ne voglia trarre. Trattasi dell'eterno dissidio tra professionista e committente, il quale, solo rarissimamente, innesca processi di reciproca stima e collaborazione. Ma in tali casi, quasi inevitabilmente, vengono a mancare, nell'opera finita, i caratteri distintivi di una autentica innovazione.
per Taccuini Internazionali
Enrico Mercatali e Vanessa Passoni
Milano, 4 luglio 2012Le tre case di cui qui si è parlato costituiscono, ognuna per sè, un manifesto della nuova frontiera architettonica, un esempio di cosa poteva dire e fare il nuovo linguaggio del costruire, tra gli anni '20 e '30, quali soluzioni innovative nell'intendere un più ampio rapporto uomo-natura nell'abitazione privata. Confrontando il panorama architettonico dell'epoca in cui queste case vennero costruite dobbiamo continuare a dire che esse furono davvero un salto verso il futuro, assai più di quanto non riescano ad essere gli esempi dell'odierna avanguardia. E' chiaro però che in essi sussistono anche i difetti dei quali qui abbiamo voluto dire, anche perchè è davvero difficile, e forse impossibile, concepire innovazione che sia al contempo di forma e di contenuto, in modo totalmente esaustivo rispetto alle molteplici esigenze che da essa se ne voglia trarre. Trattasi dell'eterno dissidio tra professionista e committente, il quale, solo rarissimamente, innesca processi di reciproca stima e collaborazione. Ma in tali casi, quasi inevitabilmente, vengono a mancare, nell'opera finita, i caratteri distintivi di una autentica innovazione.
per Taccuini Internazionali
Enrico Mercatali e Vanessa Passoni
Aggiornato il 26 marzo 2013
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