THE MAGAZINE OF THOUGHTS, DREAMS, IMAGES THAT PASS THROUGH EVERY ART OF DOING, SEEING, DISCOVERING

30 November 2012

Capogrossi alla Guggenheim di Venezia. Approfittiamo per rivedere "Casa Peggy" e la sua splendida collezione d'arte (di Enrico Mercatali)



 C  A  P  O  G  R  O  S  S  I
  alla Guggenheim di Venezia



rivisitando Casa Peggy 
e la sua imponente collezione d'arte

Il Grande Arazzo che introduce alla mostra veneziana. Nelle foto qui sopra come appare l'arazzo che Capogrossi realizzò negli anni '60, all'ingresso degli odierni spazi espositivi per le mostre a tema, e sotto come appariva in un arredo d'epoca nel quale faceva da protagonista, pur essendo lo sfondo di un servizio fotografico per l'alta moda.


E' un evento, questo della mostra di Giuseppe Capogrossi, i cui manifesti dominano nelle strade di Venezia, mentre è quasi alla fine la Biennale Architettura.
Una occasione importante, inoltre, dovuta al fatto che da tempo non vedevamo in circolazione, di questo autore, alcuna opera significativa se non  fosse stato  per  quella importantea  apparizione all'Arca vercellese, anch'essa curata da Luca Massimo Barbero, che lo aveva posto al centro di una collettiva d'analogo ceppo, proveniente infatti proprio,  anche in quel caso, dalla collezione della Peggy Guggenheim Foundation (che con l'Arca ha in corso una interessante forma di collaborazione).



Giuseppe Capogrossi, in un ritratto del 1960, davanti ad una sua riconoscibilissima sigla,  di grande formato.


E' importante, l'evento di cui stiamo parlando, perchè il nome attorno al quale è organizzato, è sicuramente un grande nome dell'arte contemporanea italiana, destinato a crescere ulteriormente, per la sua ricca trama di connessioni che ha saputo alimentare coi circuiti internazionali pubblici e privati, e per la sua intrinseca complessità, pur compresa entro binari espressivi solo apparentemente semplici e perfino essenziali.


Giuseppe Capogrossi, "Giocatore di ping-pong", del 1931




Le opere qui sopra riportate (tutte ad olio su tela, realizzate nel '33), che Capogrossi realizzò agli esordi della sua attività artistica, e precedenti al 1941, anno della grande svolta stilistica, sono tutte esposte nella mostra veneziana: "Il temporale", "I canottieri", "Festa sul fiume", "La piena sul Tevere".


L'Evento-Capogrossi diventa molto attrattivo, in una Venezia che contemporaneamente vanta decine di altre importantissime manifestazioni nel suo centro storico, anche per l'inevitabile visita periodica  a Casa Peggy, che così diventa quasi tappa obbligata. Anche il turista non proprio addetto ai lavori, vi trova così spunti di eccitante venezianità. E così qui la mostra del meastro romano si colloca benissimo. Diventa però utile, per chiunque si accosti a questa mostra, una nota critica approfondita almeno quanto basti a comprenderne i passaggi principali, non fondamentale comunque ad assaporare le opere esposte anche solo nel loro semplice porsi all'occhio del visitatore che ne cerchi anche soltanto un puro piacere visivo, fatto di forme e colori di modernità, al di là d'ogni possibile pregiudizio estetico, ma desideroso di accostare soltanto pura e semplice bellezza pittorica.



Qui sopra il curatore della mostra, Luca Massimo Barbero, curatore anche del catalogo edito da Marsilio Editore, dietro al quale campeggia una grande opera di Capogrossi. Barbero è stato anche curatore della mostra tenutasi all'Arca di Vercelli nel 2011 (da Taccuini Internazionali recensita) che raccoglieva buona parte delle migliori tele della fondazione Peggy Guggenheim., provenienti da Venezia. Anche in quell'occasione protagonista della mostra fu una grande tela capogrossiana, posta proprio al centro della sala espositiva principale, capace di catalizzare l'interesse del pubblico, non solo per la sua non insolita straordinaria dimensione, ma anche per la sua grande qualità intrinseca, dotata di una, sì davvero insolita per l'autore,  multidimensionale componente prospettica. E' stato forse Barbero per primo a voler sottolineare, ad un pubblico e ad un a critica fin qui convinta dell'essenza assolutamente  piatta e grafica di questo autore, quanto invece dovesse essere ribaltato tale superficiale giudizio, cosa che, nella mostra veneziana, appare come la principale novità del nuovo corso critico con il quale guardare a questo artista.



Giuseppe Capogrossi, "Le due chitarre", 1940 (sopra), e "Superficie 021" (sotto), 1941.
Il cambiamento stilistico nell'arte del pittore romano avviene tra il 1940 e il '41, data quest'ultima nella quale viene abbandonato ogni riferimento alla realtà visibile per approdare alla pura astrazione del segno archetipico, quello che contrassegnerà la cifra dell'artista per tutto il resto della vita, sul cui significato si sono cimentati ed ancora si cimentano i maggiori critici dell'arte (allora Giulio Carlo Argan, oggi Achille Bonito Oliva). Già nel quadro "Le due chitarre", tributo a Cezanne, ultimo dei quadri che ruotano attorno al Realismo Magico della Scuola Romana, la fitta rete di linee che segna la struttura compositiva prelude alla grande rottura subito successiva, nella quale, ad interessare l'autore, ormai è solo la superficie segnica della trama che sorregge ogni elemento della realtà, più che la realtà stessa, l'invisibile maglia che "recinge spazio e tempo nell'istante iconografico del segno-archetipo". Come sostiene A.B.O. è proprio quest'ultimo che avvia la fortunata serie delle "Superfici" che faranno scalpitare per averle molti collezionisti d'oltre oceano, tra cui lo stesso David Rockefeller.




"Superficie 219" del 1957


 L'artista ha in effetti esercitato non poche volte la curiosità di chi volesse conoscere il significato dei simboli che vi sono espressi con tanta quasi monotona pervicacia. Ma non è stato dato sapare, mai, ciò che ha invece esercitato numerosi tentativi da parte di critici anche assai quotati, di fronte al mistero di certi segni così costantemente ripetuti non solo nel singolo quadro, non solo nel singolo periodo della vicenda artistica, ma lungo l'intero arco della medesima in modo peraltro capace di non escludere nulla, ma semai esaltare, il senso di una ricerca artistica "a tutto campo", perseguita dal loro autore con intento autenticamente esplorativo.



"Superficie 406" e "Superficie 399", entrambi del 1961.



Sopra: il gallerista milanese Carlo Cardazzo, grande organizzatore di eventi legati alla figura di Giuseppe Capogrossi, specialmente a Milano, qui con l'attrice Sofia Loren e, sullo sfondo, un'opera dell'artista della scuola romana. Fu Cardazzo a decretare per primo il lancio internazionale di capogrossi, che divenne, già negli anni '50, il primo artista italiano ben conosciuto all'estero, specialmente negli Stati Uniti d'America.



Molta critica ha azzardato spiegazioni circa la cifra artistica capogrossiana del "forchettone", o del "pettine", come popolarmente venivano chiamati quegli strani segni che instancabilmente l'artista proponeva, nelle molteplici e pure interessantissime composizioni che le comprendevano. Giulio Carlo Argan, negli anni '50,  vi aveva visto un segno d'orizzonte, nella parte curva, e la traccia d'una indicazione prospettica nelle gambe centrali, una simbologia capace di sintetizzare tutto ciò che occorre per circoscrivere il reale. Achille Bonoto Oliva, invece, oggi vi vede una "vera e propria figura, per riconoscibilità e classica semplicità, che abita le superfici, assumendo anche i travestimenti decorativi dell'ornamentazione". 




Un segno, secondo A.B.O., che "racchiude in sè una tensione verso la totalità e l'autosignificazione: esso contiene in sè tutte le forme più primitivamente germinali (linea retta, circolarità, segni a punta scoccati come dardi)". In entrambi i casi vi viene riconosciuta l'importanza di un archetipo. Dice ancora Bonito Oliva in un articolo su La Repubblica (21 ottobre 2012): "Così la cifra assume il carattere del Mitéma, un'unità segnica tracciata dall'artista che non deve spiegare il suo significato, perchè sta nell'atto steso del tracciare, come nell'atto dell'esistere. L'icona mitica assorbe ogni altra temporalità che governa il mondo.


Enrico Mercatali 
Venezia, novembre 2012
(le foto sopra e sotto al titolo sono di Enrico Mercatali) 


10 November 2012

FACECITY - Venezia Biennale Architettura XIII edizione - Padiglione Italia




Biennale Architettura
XIII edizione
Padiglione Italia
 
" F A C E C I T Y "





I volti di Milano
espressioni dai suoi più grandi maestri dell'architettura




Sopra al titolo Ignazio Gardella. Qui sopra Mangiarotti e Morassutti


Una interessante mostra apre Il Padiglione Italia alla Biennale Architettura, inaugurata ieri a Venezia Giardini: Facecity, che riprende, raccoglie e organizza un escursus visivo quasi come fosse una partitura musicale, costituito dalle facciate delle case sue più famose, ovvero quelle che hanno dato l'imprinting al suo volto migliore, quello dell'epoca d'oro della sua crescita moderna, quello realizzato dai suoi migliori figli architetti tra gli anni 50 e 60. L'identità della metropoli odierna è stata determinata prevalentemente da questa facciate piane, oppure appena rese plastiche dai suoi lievi aggetti e dalle sue appena accennate sporgenze, create da architetti quali, Asnago e Vender, Figini e Pollini, Vito Latis, Gio Ponti, Caccia Dominioni, Vico Magistretti, Ignazio Gardella, Mangiarotti e Morassuti, ecc.

Essi avevano molto in comune, pur marcando tra loro le piccole differenze che ne determinavano lo stile, e che certamente ne rendevano riconoscibili le firme. Questo loro lato in comune è ciò che crea l'interesse odierno del curatore della mostra al Padiglione Italia, Luca Zevi (figlio di Bruno Zevi, noto storico dell'architettura moderna), che, dell'impostazione generale "Common Ground" di questa XIII edizione di Biennale Architettura voluta da David Chipperfield, ne ha voluto assecondare l'assunto.



Dall'alto: Asnago e Venier, Figini e Pollini, Vito Latis e due differenti Gio Ponti


L'interesse odierno per tale tema, che approfondisca i terreni comuni dell'architettura piuttosto che le singole specificità,  è da molti riconosciuto come essenziale oggi, dopo l'ubriacatura postmoderna,  durata quarant'anni, e questa mostra, pur concentrata sul terreno specifico della metropoli lombarda, ne descrive con molta precisione il vocabolario, e ne studia con passione i caratteri del linguaggio., con i suoi racconti e le sue infinite varianti. Oltre a ciò la mostra entra nel vivo della questione del senso, e della fondatezza che le regole, spontaneamente adottate in quella fase storica da tutti i suoi protagonisti, hanno nella costruzione del volto più autentico della città, attraverso il dialogo con i suoi cittedini, che in essa, per questo, vi si identificano con naturalezza e produttiva condivisione.




Dall'alto: Vito Latis, Mangiarotti e Morassutti, Gio Ponti, Caccia Dominioni, Gio Ponti, Ignazio Gardella, Caccia Dominioni, Asnago e Vender, Caccia Dominioni




L'autore di questa mostra è il fotografo Pino Musi, il quale ha raccolto le immagini frontali di tutte le architetture che a suo dire sono le più significative del dialogo avvenuto in città tra i suoi più begli e significativi edifici del moderno, e successivamente organizzato in modo da renderlo corale, nelle specifità e nelle diversità di ciascuno, nell'assieme che lo rende speciale e forse unico.







Tale unicità corale, che taluni già vorrebbero descrivere come una sorta di "milanesità", e che fa della città di Milano un caso a sè che, pur nella sua inesprimibile bellezza, riesce a trovare il suo stile, è esattamente ciò che il "common ground" vorrebbe esplorare, per comprenderne l'utilità nella costruzione del processo identitario della comunità dei suoi abitanti.






Dall'alto: Ignazio Gardella, Vico Magistretti, Gio Ponti, tre differenti Asnago e Vender, Ignazio Gardella


Mentre siamo sul tema, approfittiamo dell'occasione per considerare quanto diverse appaiano tra loro due pubblicazioni sull'architettura milanese, lontanissime tra loro nel tempo e nello spazio,  giusto per comprendere quanto diverso sia lo spirito del tempo, e quanto necessario sia, a nostro modo di vedere, un ripensamento nei termini del "Common Groud", che è il tema della mostra veneziana di quest'anno9. Delle due citate pubblicazioni, la prima, è quella curata da Piero Bottoni, "Edifici Moderni in Milano, nel 1954, per l'editoriale Domus, e l'altra, uscita in questi giorni,  è :"Milano - Le nuove architetture" curata da Maria Vittoria Capitanucci per Skira.




Nella prima, emerge già un "common ground" ante litteram, assai simile a quanto raccontato da Pino Musi nella mostra veneziana Facecity, emergente nella Milano degli anni 50 e 60; nel secondo vi è pienamente espressa l'immagine del caos visivo dominante nella metropoli consegnataci dalla giunta Moratti, ovvero dal più sciagurato susseguirsi di avvenimenti a livello urbano e territoriale che si sia visto abbattere su una citta italiana da quando si è avviata l'epoca moderna. In questo periodo hanno fatto da padroni gli immobiliaristi speculatori e le loro avanguardie politiche. Milano in questo scorcio di due decenni ha totalmente perduto la sua identità, mostrando il peggio di come si possa fare per rendere inabitabile il proprio territorio.




Ben venga quindi un "Common Ground"
(Nota: non tutte le immagini riprodotte hanno a che fare con gli originali visibili nella mostra veneziana).

Enrico Mercatali
TACCUINI  di   CASABELLA
Venezia, 30 Agosto 2012
(aggiornato il 10 Nov 2012)

04 November 2012

Cattedrali del vino e nuove cantine d'autore n. 2 (aggiornato 4 nov. 2012), di Enrico Mercatali




Cattedrali del vino 
Nuove Cantine d'Autore

n. 2



Due immagine della nuova cantina Antinori di Bargino, in Toscana, firmata da Archea Associati. L struttura vinicola è mimetizzatissima nellampio panorama collinare presso Bargino: solo una grande piastra ondulata vi emerge dolcissima, mentra tutti i grandissimi ambienti interni costituiscono un nucleo ipogeo ben illuminato e freschissimo di grande suggestione visiva.


Taccuini Internazionali dedica un secondo articolo al suo più letto degli ultimi anni, di analogo titolo, dedicato ad una escursione sull'architettura delle vinerie di più recente costruzione, che si sono avvalse della collaborazione di firme prestigiose dell'architettura internazionale, o che si sono avvalse del mezzo comunicativo d'una architettura dal linguaggio meno tradizionalista per promuovere i suoi uvaggi, il proprio marchio, i propri più pregiati vini.
La fortunata escursione in questo mondo, che è valsa al nostro magazine una risposta più che positiva dei suoi lettori, che abbiamo anche pubblicato in versione inglese, vogliamo qui riproporre con un secondo articolo che ne prosegua l'indagine mostrando altri prestigiosi marchi, attraverso la scelta di veicolarsi con l'architettura contemporanea agli occhi del pubblico ed al palato dei più esigenti degustatori.
Titoleremo perciò questo articolo con il medesimo titolo della prima versione numerandolo come secondo, così da mettere in rete entrambi i resoconti come fossero l'uno un tutt'uno con l'altro.
Eccone qui, del primo articolo, il relativo link, per chi voglia rivederselo prima di continuare il nuovo viaggio, che questa volta, oltre che ancora in Italia, nella Toscana del Chianti, ci porterà anche in Portogallo:

http://taccuinodicasabella.blogspot.it/2010/08/cattedrali-del-vino-cantine-dautore.html



Nuova Cantina Antinori 
nel Chianti Classico, presso Bargino




Alcune immagini della nuova Cantina Antinori nel Chianti Classico, presso Bargino, 
firmato da Archea Associati


Inaugurata il 25 ottobre 2012 a Bargino, nel cuore del Chianti Classico, la nuova Cantina Antinori, firmata dello studio Archea Associati, valorizza il paesaggio e il territorio circostante quale espressione dei valori culturali e sociali del luogo di produzione del vino.
Il progetto incentrato sulla sperimentazione geo-morfologica di un manufatto industriale concepito come espressione della simbiosi tra cultura antropica, l’opera dell’uomo, e ambiente di lavoro e naturale.

La costruzione della cantina è incentrata sul radicamento con la terra, una relazione tanto esasperata e sofferta (anche in termini di investimento economico) da condurre l’immagine architettonica a nascondersi e con-fondersi in essa. Pertanto il progetto integra il costruito al paesaggio agreste dove il complesso industriale è dissimulato attraverso la realizzazione di una copertura che definisce un nuovo piano di campagna coltivato a vigneto e disegnato da due tagli orizzontali che permettono l’ingresso della luce e l’inquadratura del paesaggio.
La facciata, per usare una categoria propria degli edifici, è quindi distesa orizzontalmente sul pendio naturale scandito dai filari delle viti che ne costituiscono, con la terra, il sistema di “rivestimento”. Le aperture-fenditure svelano, senza evidenziarlo, l’interno ipogeo: lungo quella più bassa sono distribuiti gli spazi uffici e le aree espositive, mentre su quella superiore si aprono le zone di imbottigliamento e immagazzinamento. Il cuore della cantina, dove il vino matura nelle barriques, nell’oscurità mediamente diffusa degli interni e nella ondulata sequenza dei soffitti voltati in terracotta, mostra la dimensione sacrale dei suoi spazi nascosti  come migliore opportunità per le più idonee condizioni termo-igrometriche dell'intero processo realizzativo dei prodotti.

La lettura dell’edificio evidenzia la sua articolazione altimetrica, che segue il percorso produttivo discendente (per gravità) delle uve, sin dal loro arrivo, ai tini di fermentazione fino alla barriccaia interrata; un percorso che risulta inverso a quello intrapreso dal visitatore, il quale, dai parcheggi risale alla cantina e ai vigneti, attraversando le zone produttive ed espositive. Queste ultime vanno dal frantoio, alla vinsanteria, al ristorante, fino al piano che ospita l’auditorium, il museo, la biblioteca, le sale di degustazione e la aree di vendita diretta. Gli uffici, le parti amministrative e direzionali, che stanno al piano superiore, risultano scandite da corti interne che prendono luce attraverso grandi fori circolari nel cosiddetto "vigneto di copertura", sistema atto a portare luce fino alla foresteria, la casa del custode. I materiali e le tecnologie evocano la tradizione locale dando evidente espressione al tema della natura, sia nell’uso della terracotta, sia nell’opportunità di utilizzare l’energia naturalmente prodotta dalla terra per raffrescare e coibentare la cantina, le cui condizioni climatiche, necessarie alla produzione del vino, vi si generano in modo semplicee del tutto spontaneo.



Altre due suggestive immagini dal basso delle ampie aperture che permettono l'ingresso di aria e luce nelle nuove cantine Antinori di Bargino.




Sociedade Agricola Ida
 Quinta do Vallado (Portogallo)




Sopra e sotto al titolo, qui sopra: Quinta do Vallado (Portogallo), Sociedade Agricola Ida. Il progetto, di Guedas + De Campos, cerca di conciliare l'esigenza di ampliamento della vineria e delle sue cantine con l'inserimento nel paesaggio circostante, ricco di movimentazioni del terreno, attraversato da un lungo viadotto d'autostrada. L'intervento mira a mantenere gli edifici esistenti, completando con la riorganizzazione necessaria la costruzione di nuovi edifici: Magazzino di fermentazione, Magazzino Hogshead e Reception. L'estensione della cantina ha condizionato tutto il sistema produttivo ed ha richiesto una grande sforzo progettuale, specialmente nel mantenere al minimo, nel layout costruttivo,  le quote dell'edificio.
I nuovi volumi creano un rapporto di tensione ed equilibrio tra gli elementi architettonici e  quelli topografici, fondendosi nel terreno, e dichiarando la loro natura artificiale.
Il Magazzino Hogshead è, al contempo, autonomo, dialogando con il paesaggio, e tenendo conto della topografia terrazzata sul Douro.
La sua grande massa in pietra campeggia sui declivi delle vigne terminando a sbalzo, così diventando barriera fisica come fosse una roccia emersa dal terreno, pur senza dominarvi eccessivamente in altezza.
Il progetto concilia la struttura e le infrastrutture nella concezione di un forma ancestrale.
Il Magazzino Hogshead con il suo volume parallelepipedo presenta una massa che permette una buona prestazione di isolamento termico per le cantine sottostanti e la presenza di un sistema di ventilazione naturale.
Tutti i volumi sono costruiti in calcestruzzo con un irruvidimento finitura all'interno. All'esterno degli edifici sono rivestiti con scisto locale bruciato lavorato in modo contemporaneo.



Ancora due immagini di Quinta do Vallado (Portogallo), Sociedade Agricola Ida



LOGOWINES
Herdade da Pimenta in Évora



Qui sopra e sotto: "Logowines",  Herdade da Pimenta in Évora, progettata nel 2006 e terminata nel 2010 da PMC Arquitectos (Carlos Toja de Sousa Coelho e Miguel Passos de Almeida)




Con una configurazione rettangolare di 110 m da 27 m, si compone di un volume rivestito con pannelli di sughero, suddiviso in tre "scatole grigie", che organizzano le principali aree funzionali della cantina.
La cantina dispone di un totale di 3,780.00 mq di costruzione, distribuiti in due piani, con uno parzialmente interrato, al fine di trarre vantaggio da migliori condizioni climatiche / ambientali per la produzione, vinificazione, stoccaggio del vino e l'invecchiamento.
La cantina stabilisce un legame formale tra le tradizioni del luogo e la dinamica produttiva e commerciale dei nostri giorni. Il ritmo dato alle facciate, con una forte definizione di linee orizzontali, utilizzando vari spessori di pannelli di rivestimento di sughero, dove si aprono le finestrature per l'illuminazione interna naturale, è rinforzata dal comportamento naturale del materiale scelto, provocando una serie di texture, sfumature e le ombre che contribuiscono all'idea di una costruzione che muta nel tempo, in una chiara allusione alla maturazione del vino durante il periodo di produzione.
All'interno, un ampio spazio con 9,5 m di altezza del soffitto, è stato progettato con l'obiettivo di sviluppare un metodo innovativo di produzione di vino con vasche sovrapposte, che si avvale del sistema di gravità, evitando il continuo pompaggio di vino durante le varie fasi della vinificazione.
Al piano inferiore, l'edificio è dotato di una volta a botte per 400 barili e mezzo, una linea di imbottigliamento e di un magazzino con 700,00 mq. Le aree tecniche sono state perfettamente integrate all'interno dell'edificio: un laboratorio centrale di analisi e test, una mensa e spogliatoi / docce per i dipendenti.
Al piano superiore, che occupa l'area di due "scatole" che si trova a est, si trova l'area della zona turistica di amministrazione del vino, con una reception, una zona degustazione e di uffici, sale riunioni.






Carapace Winery (2005-2012), della Famiglia Lunelli
Tenuta di Castelbuono a Montefalco di Bevagna
 Progetto di Arnaldo Pomodoro




Sopra e sotto: "Carapace Winery" nella Tenuta Castelbuono, a Montefalco di Bevagna, ideato da Arnaldo Pomodoro per la famiglia Lunelli. La grande cupola rivestita in rame costituisce il fulcro d'attrazione territoriale che il noto scultore, ha proposto nel suggestivo splendore collinare dei vigneti del Sagrantino. Non era la prima volta che Pomodoro si cimentava con tale dimensione e con le problematiche tipiche dell'architettura. Ancora egli ha saputo, con quest'opera, ottenere un risultato capace di armonizzare dimensionalmente un effetto scultoreo a grande scala nell'ambito di un contesto orograficamente mosso e storicamente consolidato. Se gli esterni si lasciano volentieri condizionare dalla dolcezza delle sagome collinari, all'interno le caratteristiche asprezze formali del linguaggio pomodoriano si disvelano senza remore, creando effetti espressionistici altamente plastici, ad effetto perfino drammatico: una interpretazione personale dei forti aromi sprigionatisi dalle botti? Un richiamo alla strutturata robustezza del prodotto e all'intensità dei retrogusti?









Arnaldo Pomodoro è al lavoro sui modelli del bancone tinto di rosso rubino. Qui  sopra e sotto la grande cupola, detta Carapace". La complessa trama strutturale della cupola, in legno lamellare, che all'esterno deve assumere l'aspetto di una colossale scultura, tipica del suo autore







Cantina La Grajera
(presso Logroño e solo pochi metri dal Camino de Santiago)
 Progetto di VIRAI Arquitectos  (2004-2011)
(Marta Parra, Juan Emanuel Herranz)




MEMORIANella tenuta di La Grajera, a ovest della città di Logroño e solo pochi metri dal Camino de Santiago, troviamo la Cantina di La Grajera.Il progetto cerca un equilibrio tra la necessità di annunciare la presenza della cantina e il desiderio di fondersi con il paesaggio: i volumi seguono le deformazioni del terreno e sono interrotti, verso la foresta, ma avvicinandosi ai suoi confini, rispettando così il vegetazione esistente.Un grande semi-interrato di fondazione in pietra arenaria ospita la zona di produzione della cantina. Esso si piega e si alza per diventare un elemento della costruzione e di trasformarsi in un elemento del paesaggio. Prima di questa massiccia costruzione, la parte istituzionale della cantina si materializza in un corpo in vetro e ceramica scuri, cha fanno da segnale della sua presenza.Il terzo volume, una piccola torre che ospita uffici, completa e chiude l'edificio, contribuendo a creare una piazza pedonale che dà accesso alle diverse aree: una piazza che è aperta sulla foresta, al paesaggio e al panorama.La presenza di due ingressi su diverse altezze sfrutta la pendenza del terreno, favorendo molti aspetti del processo di fabbricazione, come ad esempio la temperatura costante del terreno e l'uso della  gravità e la ventilazione naturale.Il materiale scelto, il cambiamento dall'esterno verso l'interno luminoso in pietra scura, diventa un percorso didattico lungo il quale è possibile partecipare a tutte le fasi di fermentazione del vino, dalla coltivazione delle uve alla degustazione del prodotto.Il progetto dell'edificio ha trovato soluzioni semplici e bioclimatici che si armonizzano con il clima e con la posizione. Le zone abitabili verso sud, atte anche a proteggere le aree dedicate alla produzione e alla fermentazione, che rimangono sotterranee e coperte dalla collina, riducono così la necessità di aria condizionata. Il tetto inclinato è coperto dalla vegetazione , così fondendosi con il paesaggio, aumentando l'isolamento termico. L'orientamento e la sezione della cantina permette di garantire una ventilazione naturale dell'edificio, e ridurre la necessità di ventilazione meccanica per il processo industriale.Tra i sistemi di costruzione, un elemento in ceramica, utilizzato sulla facciata merita particolare menzione, è stato progettato dallo studio Virai Arquitectos collaborazione con la società spagnola Favetón. Esso ha lo scopo di proteggere in modo differente ed equilibrato facciate molto esposte al calore da quelle quasi sempre in ombra.







Cantina Colterenzio
(Cornaiano, Italia  2011)












Cantina Nals - Malgreid
2011





L'architetto Markus Scherer, autore del progetto, ci dice: "A Nalles, in provincia di Bolzano, ai piedi della collina Sirmian, in un territorio di vigneti e frutteti è situata la cantina Nals-Margreid, progettata dallo studio d’architettura trentino Markus Scherer (Merano, Bz).
Il crinale della collina di porfido dal color rosso bruno si staglia sui vigneti creando un netto contrasto con l´ameno paesaggio vinicolo. La cantina nel corso degli anni è cresciuta in un agglomerato casuale. Il desiderio di razionalizzare tale sito produttivo e di espandere la produzione vinicola a Nalles ha richiesto un ampliamento della cantina, tenendo conto della sofisticata lavorazione enologica delle uve.





La nuova disposizione funzionale è stata risolta con la ridefinizione e la realizzazione di un nuovo edificio di testa per lo scarico e la vinificazione dell´uva con integrata una torre, un´ampia cantina interrata che connette la preesistente cantina e una nuova barricaia nel cortile e un ampio tetto piano a copertura dell´intera area. Il cortile permette al visitatore la vista dei due fulcri della cantina: la torre di pressaggio dell´uva e la barricaia.




Il nuovo edificio posto su uno zoccolo è in cemento isolante pigmentato color marrone-rossiccio a formare un´unità cromatica e materica con il recinto del cimitero della chiesa adiacente e con le rocce porfidee di cui è composto il crinale retrostante. L´intradosso della piastra del tetto segue invece le linee di forza e forma una superficie irrigidita come un origami.
La barricaia si configura come una gigantesca cassa per il vino ed è quindi interamente realizzata in legno. I nuovi materiali utilizzati sono naturali, si inseriscono armoniosamente nel contesto e corrispondono all´ideologia del prodotto da realizzato: autoctono e genuino".



Cantina Tramin
Ampliamento della cantina sociale di Termeno (2007 - 2010)






Scrive l'architetto Werner Tscholl, autore dell'opera: "L’idea da cui ha preso vita il progetto è la vite, nella sua morfologia e funzione sul territorio. Un segno che nasce dalla terra grazie all’opera delle sapienti mani dei coltivatori e che crea nel caso della cantina un involucro tutt’intorno all’edificio che la ospita. La struttura diventa quindi una scultura, un’opera capace di segnalare la presenza e la missione della cantina. Il suo impatto iconografico legato all’ambiente e insieme di forte differenziazione, unendo metallo, cemento e vetro, rendono la costruzione un segnale di riconoscimento per l’intero paese di Termeno quale porta d’entrata al paese. 





Il progetto mira a creare una netta divisione tra l’attività di cantina e i flussi dei visitatori. Per entrambe le funzioni si viene a creare uno spazio distinto e dedicato senza percezioni reciproche anche ottiche. Nel reparto al piano inferiore, quello verso i vigneti, rimane l’accesso per i contadini e per il trasporto delle merci che raggiungono e che partono dall’azienda, nonché il parcheggio per i collaboratori. In tal modo si eliminano tutti i disturbi visivi al visitatore della cantina. L’area di accesso al pubblico e ai visitatori è coperta da una piattaforma al di sopra della quale è invece posta l’entrata al pubblico. Il foyer d’entrata è stato ricavato nella parte di cantina preesistente, che rappresenta la tradizione dell’azienda e che diventa il cuore della nuova struttura. Dal cuore si dipartono le due nuove ali, che come due braccia aperte invitano a entrare. Le due nuove ali accolgono diverse funzioni, nella parte destra si trovano gli uffici amministrativi e marketing, a sinistra le sale di rappresentanza con un piccolo museo, sale riunioni e conferenza, nonché la nuova enoteca con la vendita diretta che si trova nella parte più panoramica dell’edificio. Le due nuove ali nascondono inoltre la vista sulle parti operative preesistenti, meno interessanti dal punto di vista architettonico."




Enrico Mercatali
Lesa, 29 Giugno 2012
(aggiornato il 4 novembre 2012)