Dalla trasformazione della materia al risveglio dell'uomo
di Enrico Mercatali
(fotografie di Enrico Mercatali)
Sopra al titolo: interno della mostra, in una sala dei Magazzini del Sale, alla Giudecca.
Sotto al titolo: panorama della Giudecca e di San Giorgio Maggiore davanti alla sede della mostra
"Una centrale nucleare sarà il mio Pantheon". Così ha recentemente dichiarato Anselm Krier durante l'intervista rilasciata in occasione della mostra veneziana alla Suddeutsche Zeitung. L'artista tedesco che sta facendo parlare di sè in tutto il mondo, scuotendo alla radice il mondo stesso dell'arte con la sua opera, ricca di suggestioni ma anche di provocazioni, si è infatti dichiarato pronto ad acquistare l'impianto nucleare di Mulheim-Karlich, presso Coblenza, per farne il proprio mausoleo.
Kernkraftwerk-Mülhelim-Kärlich, la centrale nucleare recentemente chiusa da Angela Merkel, che Ansel Kiefer ha dichiarato alla Suddeutsche Zeitung di voler acquistare
Ansel Kiefer, Das Salz der Erde (Il sale della terra), 2011, installazione in process
(foto di Enrico Mercatali)
Già in passato era accaduto che l'artista tedesco acquistasse qualcosa di strano, e che da ciò si montasse la sua provocatoria azione in una campagna di stampa che facesse risuonare il suo nome come fosse quello di un profeta, o di un guru di tutti i tedeschi. Questo avvenne quando acquistò il tetto del Duomo di Colonia per farne una libreria, colma di quei suoi libri giganteschi nelle cui pagine di bronzo "fosse seppellito il futuro". La centrale nucleare di Mulheim-Karlich, la cui costruzione fu terminata nel 1986, è stata dichiarata pericolosa già alla fine degli anni '90, e definitivamente fu chiusa da Angela Merkel nel corso della revisione di tutto il programma nucleare tedesco recentemente approvato dal Parlamento. "Sarebbe sbalorditivo - sostiene Kiefer - mettersi al centro della torre di raffreddamento, per guardare in alto verso il cielo; mi accontenterei anche sola di quella".
Anselm Kiefer
sopra: "Arche" (Arca), in primo piano e "Das Salz der Erde" (Il sale della terra) in secondo piano sullo sfondo, 2011, installazione in process
(foto di Enrico Mercatali)
sotto: "Arche" (Arca), 2011 (emulsione, gommalacca, terracotta, sale, cartone, barca in piombo, 380 x 560 x 55 cm)
(foto di Enrico Mercatali)
Fa certamente parte, questa provocazione, di tutto quell'armamentario iconografico a cui l'artista di Donaueschingen spesso ricorre per rievocare la storia recente del passato tedesco, opportunamente tenuto in piedi per invertire la tendenza alla rimozione che il popolo della sua nazione ha riguardo al nazismo. Tutta la terrifica messa in scena della sua imponente opera è fatta per evocare il cinismo con il quale viene trattata la storia dai contemporanei, così come avviene per la sua stessa esistenza come uomo, prima e più che come artista, costruita sulle continue provocazioni fatte per scuotere le coscienze e per far discutere. Tra queste anche quella che lo vede "includersi tra quelli che hanno partecipato al Terzo Reich". "Semplicemente perchè - ha spiegato - oggi non posso sapere che cosa avrei fatto allora, in quanto tra gli uomini tutto è possibile".
Anselm Kiefer, Arche (Arca), 2011, particolari di destra e di sinistra (emulsione, gommalacca, terracotta, sale, cartone, barca in piombo, 380 x 560 x 55 cm)
(foto di Enrico Mercatali)
"Il piombo agisce su di me più di qualsiasi altro metallo - sostiene Anselm Kiefer - Se si indaga su questa sensazione, si apprende che il piombo è sempre stato un materiale per le idee. Nell'alchimia questo materiale era collocato al livello più basso del processo di trasmutazione dell'oro. Da un lato il piombo era opaco, pesante e collegato a Saturno - l'uomo torvo - dall'altro esso contiene argento e denotava quindi un livello diverso, più spirituale. (...) Voglio aggiungere qualcosa su questo processo di maturazione. L'ideologia alchemica era questa: l'accelerazione del tempo, come nel ciclo piombo-arcgento-oro, che necessita solo di tempo per trasformare ilo piombo in oro. L'alchimista accelerava questo processo con mezzi magici. Si parlava di magia. Come artista, io non faccio nulla di diverso. Mi limito ad accelerare la trasformazione che è già insita nelle cose. Questa è la magia per come la intendo io." (frase pronunciata da Anselm Kiefer, che introduce il voluminoso catalogo della mostra, firmato dall' stesso curatore Germano Celant).
Ansel Kiefer, sopra e sotto: due suggestivi dettagli dell'istallazione in process "Das Salz der Erde" (Il sale della terra), 2011, ottimamente inserito nella sala in laterizio dei Magazini del Sale, alla Giudecca
(foto di Enrico Mercatali)
Il titolo Salt of the Earth (Il sale della Terra) fa riferimento all’interesse di Anselm Kiefer per il processo alchemico che rappresenta l’aspirazione dell’essere umano ad una perfezione quasi aurea dell’esistenza. Secondo la filosofia che sottende tutta l'opera dell'artista, per risvegliarsi dal passato e per trovare una nuova dimensione spirituale, ogni persona deve percorrere molti stadi di mutazione. L'arte, secondo la visione di Kiefer non è che uno strumento atto a facilitarne il trapasso ed utile alla rinascita che ciascuno deve intraprendere. Per questi motivi l'artista tedesco ricorre frequentemente nei suoi dipinti, nelle sue sculture e nelle sue installazioni a materiali come il piombo e a procedimenti simbolici come l’elettrolisi. Anche l’oro e lo stesso sale egli utilizza, che nella tradizione antica venivano utilizzati per una trasformazione metaforica del sé.
Anselm Kiefer, "Athanor", 2011, installazione in process (foto di Enrico Mercatali)
La mostra, che è allestita non a caso entro una delle lunghe sale dei Magazzini del Sale alla Giudecca, che sono state storicamente luogo di deposito e conservazione di questo prezioso elemento, usato anche come alimento, consiste in un a successione di elementi: questi sono una vetrina, "Athanor," una installazione "Das Salz der Erde" (Il sale della Terra), dove fotografie di paesaggi vengono esposte su pannelli di piombo sospesi, e un dipinto-scultura, "Arche" (Arca), tutte opere del 2011. Gli elementi della installazione, in seguito a un processo di elettrolisi, presentano una patina di color verde, simbolo della speranza e dell’anticipazione dell’unione degli opposti. Kiefer offre la sua personale riflessione visiva sugli insegnamenti esoterici dell’alchimia e della Cabala, in cui si manifesta la propensione ad un risveglio e ad una maggiore consapevolezza dell’individuo quanto della sua cultura.
Enrico Mercatali
Venezia, novembre 2011 (fotografie di Enrico Mercatali) (dedicato a Elena B.)
Sopra e sotto il titolo: Nicola De Maria, "I fiori salutano la luna", 1984 (acquarello, pastello e matita su carta, montato su tela, 180,5 x 648 cm). Mimmo Paladino, "Inizio dell'opera", 1989 (olio si tela, bronzo, 340 x 470 cm) assieme (davanti) a "Tavolo", 1986 (bronzo e acciaio, 130 x 200 x 70 cm)
E' una mostra, questa che Palazzo Reale di Milano ci propone, per la curatela di Achille Bonito Oliva, che chiude un ciclo, e che forse, con questo stesso intento prefigura qualcosa di nuovo. Più di trent'anni fa infatti il suo stesso curatore tesseva i fili di una nuova prospettiva d'arte che sarebbe riuscita a fare storia, recensendo le primissime mostre di artisti quali Chia e De Maria, Clemente, Cucchi e Paladino, e tanti altri artisti divenuti poi famosi, che ruotavano allora attorno al tentativo di dissociarsi, di distaccarsi dalle regole che avevano governato l'arte delle avanguardie sino a quel momento, cercando nuovi e più liberi modi espressivi. Bonito Oliva, anch'egli giovane critico, ma già capace di vedere avanti, nel raccoglierne i frutti del loro lavoro, scrivendone libri ed articoli, promuovendone le prime mostre andava trovando nessi e assonanze, fattori di innovazione e ragioni di un comune sentire. Assieme a loro, nell'esigenza d'assestare un definitivo e mortale colpo al percorso lineare e assoluto che il modernismo aveva fin lì imposto con le sue avanguardiue e post avanguardie, c'erano anche altri artisti, quali Schifano, Kounellis, Pistoletto, ecc., i quali presero in seguito diverse strade, collocandosi in ambiti artistici di diverso segno. Ma con ABO e i 5 artisti venne consolidandosi il nuovo gene transavanguardistico, che girò presto il mondo per il forte carattere impresso da ciascuna loro opera alle tesi e alle tematiche nuove, le cui teorizzazioni del loro mentore furono capaci di provocare un vero e proprio rinnovamento rispetto alle risposte che da essi il mondo dell'arte si attendeva.
Francesco Clemente, "The Fourteen Stations, No X", 1981-82 (Olio e cera su tela, 198 x 236 cm)
Ciò che più determinava l'azione di questo gruppo di artisti era il fatto che fossero mossi da un'unica ossessione, quella di superare finalmente quell'univoca logica evolutiva che le avangiardie del XX secolo aveva avviato ed imposto fino all'esaurimento di uni loro vitalità e risorsa d'espressione , entro filoni artistici divenuti sempre più stretti ed espressivamente inadeguati. Il bisogno d'inventare linguaggi nuovi e diversi, di disintegrare regole e schemi, di proporre nuove forme di libertà espressiva, di ritrovare i modi per esprimere e rappresentare una nuova figurazione, s'avvertiva in ogni loro opera.
Enzo Cucchi, "La biga di Giotto", 1990 (olio su tela e ferro, 100 x 740 cm)
Nicola De Maria, "Mattino del regno dei fiori", 1981 (tecnica mista su tela e valigia - due elementi 51x47x60 cm, veliero 35x50x7 cm)
Sandro Chia, "Ossa cassa fossa", 1979 (olio su tela, 175 x 210 cm)
Destrutturare le modalità creative impostesi nel moderno, dalle avanguardie alle neoavanguadie, così come anche stava avvenendo con le nuove espressioni della postmodernità in letteratura, in filosofia, in architettura, in musica, era divenuto nuovo imperativo già ciò che essi facevano negli anni sessanta, sulla scortra di quanto esprimevano allora i movimenti giovanili, il femminismo, le correnti libertarie, che esigeva perfino un nuovo sistema dell'arte, prima e più ancora che l'uso di nuovi linguaggi. Il cambiamento epocale della globalizzazione, che ha investito ogni campo dell'umano sapere e delle umane pratiche non solo culturali, ma anche economiche e sociali, ha visto corrispondere in campo artistico il fenomeno dell'ibridazione dei linguaggi ed un più ampio nomadismo dei generi, creatore di nuovi significati e rinnovate pratiche, che non possedessero uno stile loro proprio, ma che attraversassero tutti gli stili, appropriandosi di tutto ciò che più loro possa piacere.
Nella sala dedicata a Nicola De Maria vediamo, sul fondo, "Amore", 1980-'81, e, a sinistra, "Regno dei fiori", 1984-'85. "Disegno l'essere che cerco", risponde Nicola De Maria ad una intervista pubblicata sulla rivista Domus, e più avanti si descrive come "qualcuno che scrive una poesia con le dita piene di colore". "Colui che sa esattamente chi è", sostiene Jean Frémon nel catalogo della mostra, "da dove viene e dove va, non ha alcun motivo per essere un pittore come Nicola De Maria. Innocenza e libertà, lontano dai grandi o piccoli sistemi, egli va dove gli pare, come un insetto nella campagna (un grande quadro del 1983, apparentemente verde monocromatico, in realtà pieno di camminamenti interni e di colori sottostanti, si intitola Direzione degli insetti in campagna)." E' questa l'impressione che risalta più chiaramente dalla sua pittura. "Qualunque cosa faccia, dalla più piccola alla più grande, dalla più semplice alla più complessa, l'artista è se stesso uguale felicità (...) Nessuna lezione, nessuna dimostrazione, nessuna scommessa, nessuna chiacchiera, nessuna inflazione, la giustezza dell'istante maturata nella massima concentrazione, una libertà saltellante, esaltata, sovrana, che sembra venuta d'altrove, come una benedizione, in tutta innocenza, un'evidenza inesplicabile che distanzia ogni applicazione e ogni spiegazione..."
Il successo della Transavanguardia si misura travolgente proprio perchè essa approda negli stessi modi che "lo spirito del tempo" suggerisce di continuo, sia sui media che nelle sue diverse sedi. Le gallerie d'arte fanno la loro parte, rimodellando la propria offerta, ben sapendo che tutto possa e debba essere rimescolato. La critica espone e suggerisce, costruisce ed indirizza, spiega che le mille nuove strade conducono ad un'unica tendenza, quella di soddisfare i nuovi istinti di libertà, attraverso una conoscenza di sè e della storia, oltre ogni vincolo, oltre ogni schematismo. Mentre una volta ci si dirigeva verso qualcosa, ora con la transavanguardia si "attraversa" qualcosa. Se prima si progettava qualcosa, muovendo nell'utopia, ora la risposta della transavanguardia è cinica, non promette alcuna felicità, ma guarda al presente, vedendo in esso ciò che già esiste per essere felici. Sostiene Marco Meneguzzo, che della Transavanguardia descrive il primigenio movimentismo globalizzato, che già la Pop Art aveva adottato questa teoria del presente, ma lo aveva fatto restringendo il proprio orizzonte all'ambito occidentale. Ciò che contraddistingue invece quanto propone la Transavanguardia è il suo essere globale, "secondo modelli di pensiero coniugati attraverso le differenze culturali, geopolitiche, se non addirittura etniche".
Nicola De Maria, "Testa dell'artista cosmico", 1982 (acrilico e collage su tela, 199x309 cm)
Ciò stava avvenendo quasi presaghi del grande cambiamento che avrebbe comportato internazionalmente, di lì a poco, l'abbattimento del "blocco socialista" con la caduta del comunismo, vedendosi spostato lo spirito di frontiera, dall'Italia alla Corea, all'India, alla Cina, perchè nella Transavanguardia ciò è già totalmente presente.
Il ritorno al figurativo è nella Transavanguardia un modo per relegare il passato, ogni momento del passato artistico nato dalle avanguardie, al suo contesto storico, provando a dimostrare che nella nuova realtà globalizzata dell'arte ogni esperienza è necessariamente costruita con tutti i mezzi di cui l'artista dispone, mettendosi di traverso alla storia non solo dei movimenti del moderno ma anche e soprattutto a quella con la S maiuscola, declinata nei modi che tutte le culture ci possano rappresentare.
Francesco Clemente, dall'alto: "The Fourteen Station" No. III, 1981-'82; "The Fourteen Station" No. I, 1981-'82; "The Fourteen Station" No. II, 1981-'82; "The Fourteen Stations, No.VIII , 1981-'82. Scrive Derek Walkott, sul catalogo della mostra: "Quando mi chiesero di scrivere su Clemente, la prima mia reazione fu quella di rifiutare perchè la sua opera mi irritava più di quanto non mi entusiasmasse. Era comunque una sfida appassionante e a mio avviso andava rivisto."(...) "Clemente disegna in modo volutamente infantile - ossia innocente - nel modo in cui Blake descrive l'innocenza: una nuova illuminazione che segue l'esperienza. ma è anche primitivo o per meglio dire primordiale ed egizio come la serie di bassorilievi di David Hockney. Percorre il disegno e la scultura classica grecoromana e, di primo acchito, sembra un falso naif, un pretesto, ed invece è semplicemente un mondo daccapo, come Blake che guarda non "con", ma "attraverso" gli occhi, ed io a questo oppongo resistenza. Ma forse era destino che non mi piacesse, che lo guardassi come se volessi correggerlo, trattarlo con condiscendenza, come un missionario potrebbe guardare le tavolette e gli amuleti di una tribù di esseri ignudi, come un genitore un figlio ritardato, o un dottore il lavoro di un paziente instabile. Disegni che spesso appaiono feriti come fossero simboli di instabilità psichica, deformità di una immaginazione innocua, ma sono più di questo - sono le contraddizioni della storia, di una estetica prestabilita, non provocatori, ma ignari della prospettiva e della sua terza dimensione. essi si librano al di sopra di regole e principi come le composizioni di Chagall. Non c'è fulcro e non c'è cornice. La mia rabbia nei confronti del disegno di Clemente è nata con tutte queste cose ma soprettutto con un ritrarsi dal loro surrealismo - un pene fluttuante qui, un occhio avulso dal corpo lì, membra di gomma, corpi senza scheletri, un'immaginazione fin troppo evidente."
"Se agli inizi poteva sembrare "provocatorio" il "ritorno" al fugurativo, sostiene Massimo Cacciari, oggi, anche in prospettiva storica, possiamo riconoscere che l'importanza della Transavanguardia sta nel suo radicale anti-dogmatismo e nella sua volontà di abitare il chaos con una sua precisa fisionomia, il che vuol dire concependolo come spazio aperto del confronto e del dialogo tra autentiche identità. Nel catalogo della grande esposizione romana del 1982 vedo riprodotte grandi tele ricche di pittura, grondanti simbolismo. Sono tele di Chia, di Clemente, di Cucchi. Esse sono accanto al "wittgenstainiano" Paolini, a Calzolari, a Paladino, alla "Venere degli stracci" di Pistoletto. La prossimità dei primi con questi ultimi potrebbe anche essere scontata, così come anche con l' "icona" Beuys, e forse anche con il rogo primordiale rappresentato dall'opera di Kiefer "Urd Werdande Skuld" (ma il senso e l'uso dei materiali è qui totalmente diverso da quello dei maestri della Transavanguardia.
Achille Bonito Oliva, durante una intervista, riprodotta in video per la mostra. Sostiene ABO che "dramma, mito e tragedia sono categorie culturali che rimandano sempre a una ideologia della totalità, capace di fondare una immagine del mondo unitaria. Designano anche una condizione storica di stabilità e di identità del soggetto che ha, così, tutte le condizioni indispensabili per la loro pratica. In una situazione di esaurimento storico come la nostra queste categorie sembrano eccedenti rispetto alla forza culturale e ideologica disponibile. Il soggetto non ha più la superba certezza della propria interezza, ha perduto la vista panoramica sul mondo che la condizione logocentrica della cultura occidentale gli assicurava. Una catastrife generalizzata ha attraversato tutto il sistema delle varie culture, producendo revisioni e cadute di molti valori. Principalmente la perdita ha toccato il valore progettuale della cultura e dell'arte, a cui avevano sempre aderito in maniera esplicita le avanguardie storiche, e in maniera implicita le neo-avanguardie. Il dramma, il mito, la tragedia erano le maschere indossate dal soggetto a livello creativo per indicare lo smarrimento, la deviazione e la perdita del progetto. In ogni caso costituivano le forme espressive di uno scontro frontale tra l'io e il mondo. Ora a tutto questo è subentrata, lungo una linea frastagliata che parte dal Manierismo, una cultura della lateralità che vita il conflitto e lo scontro frontale a favore di un'altra posizione che gioca sull'arrovellamento, sulla riserva mentale e sulla obliquità di una figura, quella del traditore. Questi, per definizione, occupa lo spazio della lateralità e dello sdoppiamento, il luogo impervio della finzione e della scissione. Quella stessa scissione e scollamento che esiste tra il linguaggio e la cosiddetta realtà. Prevale dunque una conflittualità spostata di segno, trasferita verso un'epoca in cui tragico e comico si intrecciano. Gli artisti della transavanguardia hanno operato uno spostamento: al mito di una visione unitaria del mondo, assicurata da una ideaologia disposta a spiegare ogni contraddizione ed antinomia, subentra una posizione più aperta, pronta a vivere lungo la tangente di molte derive. Subentra la possibilità del frammento, di una esperienza posta sotto il segno del particolare e del nomadismo. Al soggetto forte delle neoavanguardie subentra il soggetto dolce della transavanguardia, che utilizza il dramma, il mito e la tragedia come convenzioni linguistiche, come colore. La citazione diventa il procedimento che ispira la ripresa di modelli culturali con i quali ovviamente l'artista attuale non può identificarsi: non esiste dunque una proiezione, piuttosto una strumentalizzazione... (...) Questi elementi spingono l'immagine alla frammentazione che ne decompone l'unità figurativa e stilistica. Dramma mito e tragedia diventano così l'occasione di un esercizio creativo improntato sull'intreccio di vari motivi che lacerano senza alcun pathos il climax che tradizionalmente accompagna tali categorie. Il perturbante si trasforma in una rete di turbolenze che si dispongono secondo un disinvolto e per niente drammatico disordine stilistico: astratto e figurativo, disegno e colore, pittura ed oggetto si intrecciano liberamente ed in maniera disinibita."
Ma gli Immendorff, i Penck, i Baselitz, i Luepertz? Il Vedova che chiude la rassegna? Transavanguardia non è scuola, e difficilmente può essere contenuta nell'alveo di una corrente. Può indicare forse la disponibilità o l'atteggiamento di "sostare" presso la storia dell'infranto, dell'incompiuto, di interpretarlo e trasmetterlo, di offrirlo in una nuova luce e trasformarlo, ma mai cedendo alla presunzione di rappresentare il solo esito destinato, la conclusione, l'inveramento. "Sisifo" è forse davvero il segno di questo movimento.
Enzo Cucchi, dall'alto: "Caldo d'oro", 2011 (Tecnica mista su carta fotografica applicata su tela, 265x350 cm), in una sala della mostra: "Ikea", 2011 e "Piero ideale", 2011, "La deriva del vaso", 1984-85. Rudi Fuchs così conclude la sua disamina dell'artista, intitolata "La salvezza di Enzo Cucchi" sul catalogo della mostra: "...cominciai a capire meglio quanto già avevo intuiro osservando le opere di Enzo Cucchi, cioè che l'artista considerava "sacro" ogni singolo dipinto. Forse non è l'aggettivo più appropriato, sa troppo di religione, eppure rende bene l'idea che le immagini dipinte siano degne di venerazione. Penso che questo concetto sia molto importante nella poetica di Enzo Cucchi. Da che, l'arte astratta - grande invenzione della modernità - ha offerto una alternativa al figurativismo tradizionale (in qualsivoglia versione stilistica), l'arte stessa è rimasta intrappolata in una serie di sperimentazioni a ciclo continuo che costituiscono la storia inquieta dell'arte moderna. Cucchi invece - questa la mia impressione guardando trent'anni della sua attività - ha deciso di dissociarsi da quella sperimentazione incessante, come ha fatto De Chirico. Il suo obbiettivo artistico è stato quello di intensificare l'immagine. E' per questa ragione che le sue opere hanno più o meno lo stesso impianto generale: uno spazio ampio simile a un paesaggio nel quale si verificano uno o due episodi figurativi, episodi che generano interruzioni visive cariche di tensioni e di enigmi. La fattura delle sue grandi orchestrazioni è essenzialmente di due tipi: la pennellata è ampia e formale o breve e rapida. Qualsiasi tecnica decida di adottare, il fine dell'artista è quello di coferire all'immagine la più intensa espressività possibile in termini di forma e colore. A questo punto il quadro successivo non sarà altro che un nuovo tentativo nella ricerca vitale di una sempre maggiore intensità. Nel suo ritirarsi dall'estenuante corsa allo stile sta la salvezza di Enzo Cucchi".
Non è una figura tragica, poichè non de-cide. "Tragico2 in questo senso è il segno delle avanguardie più radicali, e noi sappiamo di essere definitivamente usciti da quell'epoca. Ma neppure sta nel segno dell'effimero eterno, cioè dell'effimero proclamato a dogma universale, dell'eterno ripetersi dell'oltrepassamento, che diviene, di necessità, pura moda. neppure ha provocazioni da imporre. Anche queste sono finite.
Mimmo Paladino, "Camion", 1985 (Tecnica mista su tela, 274x457 cm)
Mimmo Paladino, nella sala della mostra milanese a lui dedicata queste due opere, una pittorica ed una scultorea, si confrontano e dialogano: sullo sfondo "Terremoto", 1983 (Tecnica mista su tela, 220 x 490 cm). In primo piano: "Tavolo" 1986 (Bronzo e acciaio, 130 x 200 x 70 cm). Ancora di Mimmo Paladino, sotto: il pubblico osserva "Medusa", 1984 (Olio, encausto e collage di legno su tela, 238,5 x 264 x 20,5 cm), un'altra veduta della sala con "Caduto a ragione, 1989", nella teca "Bue Apis", 1993 in cera, e una porzione di "Hotel", 1987. In basso: "Inizio dell'opera", 1989 (Olio su tela, bronzo, 340 x 470 cm).
L'epoca dello shock, l'epoca del vero trauma, è quello delle grandi metropoli, di Parigi, di berlino, di New York, delle capitali del XIX e del XX secolo., non può esservi nel mondo globale dell'in-differenza dei luoghi del consumo. L'atteggiamento della transavanguardia è di osservazione disincantata, e come obliqua, di questa realtà. Non la fugge, non la subisce - cerca di pensarla o mostrarla come un possibile "aperto" all'incontro-scontro tra esperienze che cercano, sperimentano e mettono continuamente alla prova, a rischio, in dubbio, la propria identità."
Dice Mimmo Paladino della sua arte: "Non voglio imporre alcun punto di vista, alcuna prospettiva. Anche perchè mi affascina conoscere il punto di vista degli altri spettatori rispetto alle mie opere. Mi consente di vedere i miei lavori in modo nuovo e diverso. L'occhio estraneo indica quello che io ancora non conosco e che non ho mai visto prima". Dice di lui Dieter Koepplin, nel saggio che introduce le foto delle sue opere nel catalogo della mostra: "Realizzare la possibilità di trovare e illuminare: questo corrisponde chiaramente a una condizione fondamentale dell'opera artistica di Paladino. Ha luogo nella più totale sobrietà, senza ebbrezza, nel massimo silenzio possibile. Il minimo segno apposto su un foglio bianco può innescare un misterioso processo di scoperta della realtà. "Realtà" non significa realtà nota. Benchè spesso Paladino inserisca nei suoi quaqdri figure della morte, ha detto: "probabilmente tutto il mio lavoro ha a che fare con la morte, ma non con la morte reale, bensì con una grande instabilità generale, con ambiti intermedi" - ambiti intermedi come quelli che Paladino fa in effetti emergere unicamente nei suoi disegni: tra fiume e fossilizzazione, germinazione e stupore, dilatazione e contrazione, etc. Paladino ha inciso nel linoleum una figura danzante della morte che ha poi utilizzato come timbro, imprimendolo più e più volte su un grande disegno.
Mimmo Paladino, "Veglia", 1985 (Olio e collage su cartone e tela, 230x335 x 30 cm)
Enzo Cucchi, "A terra d'uomo", 1980 (Lapis su carta intelata, 180 x 210 cm)
Nicola De Maria, "Sono asiatico sono africano", 1980-'81 (Tecnica mista su carta montata su tela, 215x272,5 cm)
Sandro Chia, sopra: "Prestigiatore incapace", 1980 (Olio su tela, 150x100cm), e "Due pittori al lavoro", 1982 (Olio su tela, 289x343 cm). Sotto: "Sinfonia incompiuta",1980 (Olio su tela, 200x110,8 cm)
"L'arte, ha detto Sandro Chia, è un mostro che non sa da dove venga e nemmeno dove sia esattamente. Ma l'artista ha la responsabilità di entrare nel labirinto e poi uscurne con la sua testa". "Il linguaggio della storia di Stevenson ("Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde"), dice Anne Seymour parlando di Chia nel catalogo della mostra, che oscilla tra i due poli del soggettivamente drammatico e dell'oggettivamente scientifico, richiama quello di Chia che ama parlare dell'arte in generale e in termini storici. Egli cerca continuamente prospetive storiche e filosofiche. Gli piace anche la frase poetica magniloquente per descrivere un concetto eroico o morale, racchiudendo spesso il significato in una metafora. E' questo probabilmente a dare sostanza alla sensazione che le figure maschili nei quadri di Chia siano alla ricerca di qualcosa, o forse pellegrini di qualche sorta, perchè sembrano destinati a una missione imprecisata. Sono, sottolinea l'artista, figure nate dalla pittura e quindi impregnate di un forte codice di morale e di giustizia, perchè le regole della pittura sono rigide e la responsabilità pesante. Nella sua visione hanno qualcosa in comune con gli eroi e con i monaci, e il loro momento di azione nel quadro è un momento di estasi. Racchiudendo quindi le lezioni morali della pittura, essi diventano parte della grande ricerca umana dell'assoluto e la loro esistenza un passo fisico verso il mistero. Tutti i dipinti parlano in una certa misura dei problemi e delle soluzioni per realizzarli. Tutti gli elementi sono in qualche sorta tracci in quasta battaglia, anche se il piacere di contemplare l'opera finita è forse dovuto più al trionfo delle soluzioni, del bene sul male se preferite, quando le tenebre vengono esorcizzate e la luce esce vittoriosa. Il risultato puà sembrare facile, ma soltanto l'artista sa quanto sia difficile, quanto sia pericoloso, quanti rischi ha corso per raggiungere il suo obbiettivo segreto. In un certo senso tutta questa fatica si è riversata in un risultato ingannevole semplice - come la morale alla fine della storia." Dice ancora Chia: "Dipingere è un tentativo di fare una "cosa" fisica che ne mette in dubbio, e ne afferma l'esistenza. Il problema metafisico della pittura è dipingere qualcosa che sia più normale possibile, ma percepirlo in un modo speciale, che lo mostri così com'è, e lo impregni del senso delle complicazioni esistenziali comportate dalla realtà. Morandi, per esempio, dimostra questo approccio quasi patologico alla realtà nelle sue nature morte". "Per Chia, continua Seymour, la pittura metafisica italiana, esemplificata da De Chirico e Carrà, che ammira enormemente, è molto più interessante del surrealismo. Mentre i Surrealisti raffiguravano eventi straordinari, i metafisici suggerivano che la realtà per l'artista sia una presenza speciale; una bottiglia su un tavolo è altrettanto strana di un oggetto inaspettato che vola in cielo. Il pittore deve esprimere questa stranezza e darle una intensità indescrivibile a parole oltre che un aspetto normale e piacevole."
Sopra: nelle sale dedicate a Nicola De Maria, dall'alto: "Testa dell'artista cosmico", 1985; "Regno dei fiori", 1984-85; "Amore", 1980-81.
MAESTRO DELL'INFORMALE il periodo "Boeing-Air France" rivisitato a Villa Giulia
Verbania Pallanza - Estate 2011
Transitavo dalla Mostra sulle Succulente “Cactus Folies”, alla sua nona edizione Luglio 2011, al termine d’una mattina di forti piogge e temporali estivi, di quelli che scaricano acqua a catinelle in pochissimi minuti per poi regalarti pochi raggi di sole capaci d’essere, in una frazione di secondo, protagonisti esclusivi di tutta la scena, superando, in attrazione e spettacolare messinscena, tutto quanto il resto a cui ti stavi dedicando.
Il forte vento spazzava le nuvole come foglie, modificandone di continuo l’aspetto, così come le forme ed i colori del paesaggio, mentre quei raggi di sole apparivano e scomparivano come fossero la luce intermittente d’un faro durante una burrasca.
Quei pochi superstiti della mostra, in questo meteorologico contesto in continua variazione, nonostante il loro interesse per le succulente, non riuscivano sufficientemente su di esse a concentrarsi, tanta distrazione imponeva lo spettacolo naturale in corso, il cui fondale, come sempre impeccabile, di Villa Giulia a Pallanza e della specialissima loggia che la coronava, si stagliava ieratico contro il lago ed il cielo in irreale movimento. L’attrazione che quella ottocentesca architettura esercitava si di me fu tale da indurmi a guadagnarne subito l’ingresso, ove, con grande sorpresa, appresi che vi erano esposte al suo interno opere tarde di Hans Hartung, del periodo 1970.
Che nesso ciò potesse avere con tutto il resto che stavo contemplando non so dire, ma, dato l’interesse che quell’artista esercitava su di me, vi entrai e scopersi che si trattava di una mostra importante, per numero e qualità delle opere, capace credo di fare apprezzare il Maestro dell’Informale perfino ai non addetti.
L’assiemaggio del grande puzzle di quella visita composita in quello squarcio di giornata, lo fece, credo in modo prevalente, la mia mente, specie quando, giunto alla sommità dell’edificio, fu la bella terrazza prospettante sulle Borromee, e la sua Loggia che la dilatava all’infinito, coi suoi reperti d’epoca, a determinare il senso profondo che ebbero su di me tutte quelle bellezze diversamente originate e solo apparentemente incongrue.
Un filmato molto ben fatto presente alla mostra mostra il maestro in azione, proprio mentre prepara bozzetti e tele per l'incarico avuto dalla Società Boeing per gli allestimenti Air France. Molto interessante l'approccio molto studiato prima di "assestare il colpo" fatale sul piano di lavoro
All’interno di quel loggiato, unico nel suo genere per tipologia e stile, realizzato nella prima metà dell’’800 con l’intento d’abbracciare a 180° uno dei panorami più belli del mondo, il segno forte e vibrante di Hartung, ovvero del più moderno tra gli informali, ancora attualissimo, segnalava quanto, nello stesso modo, all’interno e all’esterno, improvvisi ed estemporanei potessero apparire i segni di bellezza in quel contesto, ma quanto anche generatori di forza naturale e vigorosa sostanza in senso lato essi siano sempre, così da imprimersi indelebilmente nella storia dell’uomo e delle sue faticose ma mai rinunciatarie espressioni di vitalità che la sua immaginazione non abbia mai a smettere di declinare al tempo futuro.
Le opere dell’ultimo periodo che Hans Hartung realizzò su commissione della società aerea Boeing per gli allestimenti di Air France costituiscono il fulcro degli eventi di quest’anno a Villa Giulia. Qui, il più efficace esponente internazionale delle correnti artistiche tra gli anni cinquanta e settanta, che vanno dall’Informale all’Action Painting, dal Tachisme all’Espressionismo astratto, evidenzia la fase più matura della sua ricerca sul segno, quale espressione estrema e sintetica della forma astratta.
Perfetto conoscitore d’ogni tecnica e dei suoi strumenti, egli ne estende qui ogni mezzo ai limiti del possibile, restringendo però al massimo i contenuti espressivi, portandoli ai limiti della esasperata riduzione di essi ai minimi termini. Come difatti un bel filmato sul suo lavoro ivi dimostra, egli domina totalmente ogni gesto ed ogni minimo intervento racchiudendoli in sicure e precise azioni sul supporto, consapevole in anticipo dei risultati che avrebbe ottenuto, sempre assolutamente convincenti e pieni di verità certe.
Studioso di Goya e Rembrandt, nelle cui tele egli vedeva nascoste misteriose figurazioni oltre il reale, egli incontra la poetica astratta di Kandinskij per approdare poi al suo tempo, in modo tanto personale da rappresentarne uno dei più significativi e convincenti riferimenti. Il filmato, disposto tra le tele, ad olio o acrilici, rappresenta il momento culminante di quell’arte ripresa nel suo stesso farsi, a dimostrazione di quanta bellezza possa racchiudersi in pochi estremi segni quando questi emergano alla vita perché profondamente sentiti ed appassionatamente e sapientemente ricercati.
Note su Villa Giulia (Verbania, Pallanza), sede della mostra:
Bella villa ottocentesca sulle rive del Golfo Borromeo, circondata da un lussureggiante parco di grandi essenze arboree secolari ed una lunga balaustra a lago, che prospetta sull’ arcipelago delle isole borromee ed in particolare sull“Isolino San Giovanni” che ospitò Arturo Toscanini in alcuni dei suoi soggiorni sul lago. La villa è appartenuta ai coniugi Anzani Seyschab, Giuseppina e Giovanni Giorgio, dei quali due busti marmorei ornano oggi la bella loggia superiore, precursori dell’accoglienza turistica di questa zona (quest’ultimo realizzò nel 1861 e gestì per primo il Grand Hotel Des Iles Borromees a Stresa, e nel 1870 il Grande Albergo di Pallanza). L’edificio oggi ospita mostre. E’ caratterizzato da una bella scala in marmo e ferro con pareti decorati a riquadri di finti effetti marmorei e, sulla terrazza di copertura, una loggia ad esedra interamente vetrata sul lato del, unica nel suo genere, oggi sede di ricevimenti importanti e mostre, il cui impianto planimetrico simboleggia un grande affettuoso abbraccio delle bellezze storiche lacustri presenti in quel luogo.