Biennale-Venezia
ILLUMI - NAZIONI
(versione Bice Couriger)
secondo Taccuini
Impressioni e immagini a pochi giorni dalla chiusura
Prima Parte
ai Giardini di Castello
VENEZIA. Sopra al titolo il viale di accesso alla Biennale Giardini, cosparso di aste per le bandiere di tutti i paesi partecipanti. 'Illuminazioni' la 54esima edizione della Biennale d'arte di Venezia ha fatto parlare di sé e forse disturberà qualche animalista per l'opera di Maurizio Cattelan, l'artista padovano che interpreta il fare artistico come un fatto che debba stupire, se non addirittura shoccare. Questa volta con un'opera che si chiama 'Turisti'. Duecento piccioni tassidermizzati, cioè imbalsamati, posati sulle travi dei padiglioni della biennale e davanti all'ingresso del padiglione centrale. I volatili appaiono abbondanti, vedi le foto qui sopra, sia sulla facciata del padiglione centrale ai giardini che all'interno. L'idea dei piccioni nacque nel 1997 quando Cattelan, invitato alla 47esima edizione della Biennale d'arte, rispose con una sua opera dopo avere tratto ispirazione dalla visita al padiglione italiano, dove si era reso conto - si legge nel catalogo - che "l'interno era un disastro ed era letteralmente pieno di piccioni" (veri piccioni). Per l'opera che ne scaturì, 'Turisti', Cattelan lasciò la stanza esattamente com'era quando la vide la prima volta: indisturbata tranne che per l'aggiunta di circa 200 piccioni imbalsamati posizionati sulle travi e di finti escrementi sul pavimento.
Poco dopo l'inaugurazione di questa Biennale proponemmo un articolo su questo web-magazine (vedi la pagina in italiano: http://taccuinodicasabella.blogspot.com/2011/06/arte.html,
e la pagina in inglese:
http://taccuinodicasabella.blogspot.com/2011/07/la-biennale-arte-venezia-2911.html), una sintesi di quanto andavano proponendo tutti i principali media che si occupavano dell'argomento.
Adesso, che mancano solo due settimane alla chiusura, vi proponiamo altre considerazioni, quelle nate dalla presa visione diretta delle opere e dei loro ambienti, sia ai Giardini che all'Arsenale (in questo articolo solo ai Giardini. Per l'Arsenale occorrerà andare ad una seconda parte, su un'altro articolo).
Una delle opere più suggestive è certamente quella proposta nel Padiglione degli Stati Uniti d'America, preso ancora d'assalto dalla folla pur essendo uno degli ultimi giorni della mostra, il quale si impone all'interesse di chiunque anche per il frastuono emesso dai cingoli in azione del grande carro armato da battaglia, rovesciato proprio davanti all'ingresso del padiglione. rumore amplificato da un sistema d'amplificazione avente come scopo proprio quello di creare attenzione da ansietà, da fastidio, da squotimento.
Benvenuti nell’era Obama, anche a Venezia. Il Padiglione Americano ai Giardini per la 54ma Biennale di Venezia è firmato dal duo Jennifer Allora (americana) e Guillermo Calzadilla (cubano) che vivono e operano a Portorico. Firmano il padiglione con l’Indianapolis Museum of Art, sono artisti e scienziati rispettivamente del 1974 e del 1971: questo straordinario padiglione mette in fila ossessioni, grandi ascese e cadute del gigante geopolitico (ancora?) del mondo occidentale con una serie di opere commissionate per questa Biennale.
Il titolo del Padiglione, Gloria, è già paradigmatico. In mostra sculture lignee e bronzee, video e performance ginniche. Allora e Calzadilla: “Ci piaceva l’idea di dare un nome femminile e in spagnolo (in Spagnolo e Italiano, la parola è la stessa, ndr) al padiglione degli USA: Gloria. Tutte le opere sono marcate da uno spirito di attività critica e di profanazione”.
Cominciamo dall’esterno del padiglione, dove è ubicata l’opera che ha catalizzato, sin dai giorni della vernice, un’inevitabile, ossessiva attenzione. Track and Field è un carro armato (vero) capovolto sui cui cingoli vi è, in equilibrio perfetto come solo l’ingerenza umanitaria riesce ad esserlo sui conflitti tanto a bassa intensità quanto perenni, un (vero) tapis roulant usato per fare jogging in casa. A intervalli regolari viene attivato da un atleta del medagliere (d’oro e d’argento) della Federazione di Ginnasti americani (che collaborano anche con tutte le performance indoor del padiglione: danza e ginnastica femminile). L’atleta, salito sul carro armato, si mette a correre dopo che i cingoli, con il loro minaccioso suono di guerra, si azionano. Imperterrito, fa i suoi 15 minuti di corsa a intensità fissa senza farsi distrarre dall’assordante clangore o dai rumori della folla.
Il jogging sul cingolo del carro armato. Il carro è un vero carro da battaglia rovesciato. L'istallazione ha come sottofondo acustico il rumore amplificato dei cingoli quando il carro armato sta avanzando sul campo
All'interno del padiglione l'organo bancomat: l'istallazione consiste nell'autentico organo nel quale è stato inserito un vero sportello bancomat funzionante, il quale, a seconda del numero digitato, sa produrre differenti brevi armonie. In taluni casi emette veri e propri pezzi ad alto volume, come fosse in una chiesa. Algorithm è celato in un gigantesco organo a canne costruito su misura.
La postazione di lavoro, utilizzata di tanto in tanto da acrobati che vi svolgono esercizi estremi. L'istallazione non è vera, ma è una scultura in legno massiccio che ne riproduce perfettamente, in scala 1:1, l'autentico aspetto. L'intera opera rappresentata nel Padiglione degli Stati Uniti d'America, il cui titolo è Track and Field, è costituita dall'insieme delle istallazioni esterne ed interne al padiglione, ma anche dagli stessi ballerini acribati che di tanto in tanto ne utilizzano le strutture.
Sopra e sotto: una serie di sale seguono l'apertura della Biennale con le tre grandi tele di Tintoretto (tutte provenienti da Venezia, per le quali rimandiamo ai precedenti articoli pubblicati da questo magazine: http://taccuinodicasabella.blogspot.com/2011/06/arte.html, e versione inglese: http://taccuinodicasabella.blogspot.com/2011/07/la-biennale-arte-venezia-2911.html), mostrando singole opere di numerosi artisti, dando una visione complessivamente piacevole e perfino attraente della manifestazione. Qui solo alcune da noi selezionate quale semplice approccio, come effettivamente è stato per noi che, a seguire, abbiamo avuto la sensazione di un notevole salto di qualità e forza, da qui passando ai padiglioni, nei quali credo abbiamo potuto avere il vero taglio che l'arte contemporanea riserva, più secondo gli Stati che secondo la Curiger, di cui vi daremo conto qui di seguito.
Sopra e sotto: all’interno del padiglione centrale dei giardini della biennale è esposta questa scultura animatronica dell’artista inglese Nathaniel Mellors dal titolo “Hippy dialectics” . Nathaniel Mellors oltre il suo impegno nell’arte, realizza le sue creazione anche per il cinema. Nathaniel ha esposto anche a Roma nella galleria Monitor Video e Contemporary Art. L'estremo verismo con cui i volti dei due personaggi, tra loro uniti da un'unica folta chioma di barba e capelli, realizzati in silicone colorato secondo i criteri oggi molto in uso per gli effetti speciali del cinema, capta inesorabilmente chiunque vi passi vicino, ed impressiona assai, specialmente quando essi si mettono ad emettere suoni e parole sconnesse attivando totalmente la loro mimica facciale.
Sopra: il pubblico giovane assiste sostanzialmente incuriosito e divertito agli eventi entro le sale della mostra ed entro i padiglioni. Quello meno giovane è invece attonito, a volte incredulo, e spesso sconcertato, tra opere che, senza mezzi termini, evocano a volte il peggio dell'abiezione, nell'uso senza limiti strumentale e disinibito d'ogni mezzo possibile per intentare la loro serrata critica alla società contemporanea, come avviene in questo caso, nel quale si intravvede, disegnato sulla parete di fondo, una scrofa che indosa un cappello da generale.
Sopra e sotto: "Chance", titolo della istallazione di Christian Boltanski nel Padiglione Francia 54, curata da Jean-Hubert Martin.
Il padiglione francese è, a nostro parere, uno dei più significativi e toccanti. Per molti motivi. Per la pulizia espressiva che lo contraddistingue, per la nitidezza del pensiero che lo sostiene, per le implicazioni umane che chiama in causa, per la natura filosofica dell’opera, per l’assenza totale di certi elementi modaioli tipici dell’arte contemporanea di successo. Christian Boltanski, uno degli artisti più noti dell'avanguardia francese, non si smentisce neanche questa volta e propone un’ulteriore evoluzione del suo percorso, sempre coerente e lucido nella sua profondità concettuale e contenutistica. Un complesso sistema di tubi innocenti, una sorta di labirinto tridimensionale che occupa tutto lo spazio dell’ambiente centrale del Padiglione francese, incombe sul visitatore. Questa griglia che riempie lo spazio in questione, in verità è una complessa e contorta rotativa che fa viaggiare in velocità un lunghissimo rullo formato da immagini molto simili tra loro: primi piani di bambini neonati. Il rullo si ferma all’improvviso e blocca un volto, un’espressione, il viso di un soggetto che si apre alla vita. Nelle sale laterali un display gigante emette vorticosamente numeri, mentre in un altro spazio una videoproiezione fa emergere volti tagliati in tre sezioni orizzontali che si susseguono a velocità impressionante. Una postazione è collocata davanti a questa inquadratura sempre cangiante. Il visitatore può avvicinarsi a una colonnina nera e premere il pulsante che è posto al di sopra. Si compone, così, automaticamente davanti ai suoi occhi un volto costituito da tre elementi: la fronte, gli occhi, la bocca, presi da altri diversi volti. Il risultato è caotico, un puzzle irrazionale che non porta a una figura riconoscibile, mostruoso e inquietante. E se invece si formasse un volto reale? E se si riuscisse a bloccare l’indentità vera di un individuo? Se i tratti di una faccia si palesassero in maniera armoniosa? Questo vorrebbe forse l'artista. Nel padiglione una fabbrica di volti, il laboratorio di Frankestein? Il luogo delle clonazioni? L'assenza totale di colore in quel rumoroso ambiente, con la sola esclusione di un mega-orologio digitale coi numeri in rosso, che scandisce il tempo ossessivamente, contribuisce a metter paura.
Sopra e sotto: nel padiglione del Giappone viene presentata Tabaimo, l'artista oggi più apprezzata nel paese del Sol Levante
Riconosciuta tra le maggiori artiste giapponesi, ha ricevuto un primo apprezzamento dalla critica grazie all’installazione multimediale Cucina Giapponese (“Nippon no Daidokoro”, 1999), una combinazione di animazione surreale, disegnata a mano, ed elementi architettonici, in un’analisi iconica della società giapponese contemporanea. A Venezia Tabaimo: "Teleco-soup", titolo della mostra, compie la sua traiettoria attraverso un’avvolgente ambientazione multimediale che ingloba le caratteristiche uniche del padiglione Giappone ai Giardini, completato nel 1956 su progetto dell’Arch. Takamasa Yoshizaka.
Teleco-soup, indica in giapponese l’idea di una zuppa “invertita”, ovvero il ribaltamento delle relazioni acqua-cielo, fluido e recipiente, il sé e il mondo. Coniato da Tabaimo, il termine rievoca una tradizione intellettuale che affonda le radici nell’identità nazionale di uno stato insulare, o sul fenomeno recentemente denominato “sindrome Galapagos”, originariamente riferito all’incompatibilità tra la tecnologia giapponese e i mercati internazionali, ma oggi applicabile ai molti aspetti della società giapponese all’epoca della globalizzazione. Il video proiettato comincia con una piccola cellula, che si evolve in corpo, con descrizioni della Tabaimo della società giapponese. Le immagini che scorrono, creano uno spazio in continua evoluzione, che ci permette di immergerci nell’inimmaginabile scenario che viene proposto. In continua destabilizzazione sensoriale, l’orientamento antigravitazione ci porrà a contatto con l’infinita altezza/profondità del mondo del cielo sottostante, visibile da un pozzo posto al centro della sala.
La dilatazione degli spazi renderà impossibile capire il sopra e il sotto, interno ed esterno, ampio o angusto, in un continuo vortice, fino a chiedersi se sia davvero piccolo il mondo all’interno di quel pozzo…
Sopra: "Paesaggi e costruzioni d'art", un inventario personale di Jürg Conzett, nel padiglione Svizzero. Immagini di disgusto e di provocazione continua, quelle che si susseguono nei lunghi labirintici meandri del padiglione svizzero. Qualcosa di autenticamente svizzero c'è forse nella metodica, quasi ossessiva e ripetitiva cura che l'artista pone, utilizzando però strumenti di pochissimo valore quali pezzi plastica e scotch, fazolettini e "coton fioc", nel costruire questa complessa macchina critica della società, dell'uomo, dei media, dei consumi. Surreali manichini svuotati e trasparenti vengono consumati da un cancro devastatore, fatto di aggregazioni di cristalli. Cristalli d'ogni dimensione divorano tutto lo spazio esistente comprendente prodotti di vasto comsumo, impacchettati da fogli di plastica poi chiusi con abbontanti giri di scotch. Una atmosfera macabra e uticante genera repulsione e disgusto nel pubblico, che pur si sforza d'essere interessato.
Il pubblico si distrae, tra un pugno allo stomaco ed una sferzata alla mente, serenandosi mentre guarda attraverso i plexiglass omogeneamente colorati di questa sala
di Hajnal Németh - "Crash | Passive Interviews" (titolo della istallazione) nel padiglione ungherese. La parte determinante dell’installazione è un’opera lirica sperimentale che rielabora storie di incidenti stradali in forma dialogata. Il pezzo che riempie lo spazio, da ascoltare come esperienza acustica, è presentato all’esposizione anche in forma di film musicale. L’installazione è completata dai libretti dei dialoghi e dal rottame di una macchina (qui sopra) che apre il padiglione. Il pubblico lascia chiaramente trasparire il quesito: quale il significato dell'opera?, che resta un punto interrogativo. A noi non risultano dichiarazioni ufficiali dell'autore.
Christoph Schlingensief è morto nell’agosto del 2010, poco prima del suo 50mo compleanno, nel bel mezzo dei lavori di progettazione del Padiglione della Germania che gli era stato affidato per rappresentare il Paese alla 54esima Biennale di Venezia. Un acceso dibattito si è sollevato immediatamente dopo la sua scomparsa, se il Padiglione tedesco a Venezia potesse o no essere dedicato al lavoro di un artista morto. Due donne hanno intrapreso una battaglia comune per tutelare l’eredità dell’artista e filmmaker: la sua vedova, Aino Laberenz, e Susanne Gaensheimer, curatore del Museo di Francoforte e commissario del Padiglione.
Hanno avuto ragione loro e all' apertura della Biennale, la giuria internazionale ha assegnato al Padiglione della Germania il "Leone d'oro" consegnando anche una menzione speciale alla curatrice.
Con la morte di Schlingensief, inevitabilmente il progetto è cambiato, e quella che doveva essere una realizzazione artistica completa di Schlingensief, è diventata una panoramica sugli aspetti principali della sua carriera.
Tre temi sono così diventati centrali: la malattia dell’artista e la propria biografia, i film, e la sua iniziativa di creare un particolare villaggio in Africa, progetto questo, al quale s’era dedicato alacremente sino agli ultimi momenti di vita. Christoph Schlingensief era noto per le sue azioni controverse nate da una critica pungente, dolorosa, alla società tedesca e occidentale. Non temeva lo splatter come nella trilogia di film “Deutschlandtrilogie“(Germania Trilogy), né di provarsi in azioni controverse come la produzione televisiva “Foreigners out! Schlingensief’s Container” (Gli stranieri fuori. Il container di Schlingensief) realizzata in dileggio al Grande Fratello in cui dei veri richiedenti asilo sono stati rinchiusi in un container a Vienna e chiamati a gareggiare l’uno contro l’altro per evitare di essere cacciati dall’Austria.
Nella sala principale del Padiglione tedesco, la ricostruzione di una chiesa (qui nelle foto) è quasi commovente. Era la chiesa di Oberhausen dove l’artista serviva messa da ragazzino, la realizzò per la prima volta alla Triennale della Ruhr nel 2008, subito dopo l’asportazione di un polmone e mesi di chemio-terapia.
I temi della xenofobia e del senso di colpa s’incrociano con la paura dell’ignoto e “dello sconosciuto in me”. Qui Schlingensief rappresenta la sua malattia in modo aperto, ne discute la sua spietatezza partendo da sé per raccontare il ciclo esistenziale della vita, della sofferenza e del morire.
Sull’insolito palcoscenico della chiesa, anche musiche di Wagner e richiami per immagini a Joseph Beuys e a Fluxus che tanta parte hanno avuto nella formazione dell’artista.
In una delle due ali del padiglione, su un grande schermo passano sei film scelti per rappresentare periodi diversi nella carriera di Schlingensief: Menu totale (1985/86), (Egomania) 1986, Trilogia dalla Germania con 100 anni di Adolf Hitler (1988 / 89), Il Chainsaw Massacre del 1990 e del 1991-1992 Terror 2000 e poi il suo penultimo film United Trash del 1995/96.
Una selezione di film che ben spiega l’immaginario cinematografico dell’artista. L'assieme è un'opera d'arte postuma, assai ben istallata dal curatore, assai complessa nei riferimenti iconografici e nella simbologia adottata, che suscita molto interesse e sgomento, capace di raggelare il visitatore per i contenuti esplicitamente macabri che vi si propongono, ma forte e intelligente ciò che nello spettatore sa provocare la terribilità del quadro ambientale d'assieme che lo avvolge e che lo squote.
Nei primi anni 1980 Schlingensief sviluppò uno stile individuale, estremo, forte, consapevole dell’estetica trash dei b-movie delle arti visive. Pur essendo ben accolto nel contesto dell’arte, la sua opera cinematografica per lungo tempo è rimasta periferica, eppure nella sua critica radicale della società per molti versi Schlingensief si rivela profetico della nostra memoria culturale. La seconda ala del padiglione accoglie invece l’ultimo e più importante progetto di Schlingensief, la sua visione di un villaggio in Africa. Questo progetto sociale al quale si è dedicato fino alla sua morte con tutta la sua forza e devozione sorge vicino a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, ed è stato creato nel 2010.
Il villaggio si chiama Remdoogo e presenta una scuola di cinema e di musica, laboratori e magazzini, residenze e camere dedicate all’ospitalità, mensa, uffici, bar, un campo di calcio, un ristorante, un ospedale, una sala da te e sala prove.
Il villaggio dovrebbe essere un luogo per imparare, dove i bambini, gli adolescenti e gli adulti possano sviluppare le loro capacità musicali e artistiche, un luogo dove i giovani del Burkina Faso possano mettere alla prova la loro voglia di sperimentazione e la loro curiosità. Prendendo spunto dal significato di scultura sociale di Beuys, qui si fondono arte e vita.
Tra materiale fotografico e documentazioni varie dedicate al villaggio, nel Padiglione si può vedere anche un estratto di Via Intolleranza II, il lavoro in cui Christoph Schlingensief esprime più chiaramente la sua preoccupazione per l’Africa da un lato e la sua capacità di auto-interrogazione e di autocritica dall’altro. Ne risulta una miscela complessa di visione e di fallimento, di conflitto tra l’intolleranza occidentale e il tentativo di un incontro paritario.
Sopra e sotto: "The Love is gone but the Scar will heal" (titolo della mostra nel padigliore coreano), di Lee Yong Baek, conosciuto principalmente per le sue installazioni video, in biennale presenta una gamma più ampia di opere: sculture, kinetic arts, dipinti e performance. I suoi pezzi coprono temi come la religione, la politica e la filosofia, mostrando i vari aspetti della società contemporanea: l’identità, l’esistenzialismo e l’artificio. Il padiglione è diviso in tre parti: nella prima in una stanza vi sono degli specchi incorniciati che vengono ininterrottamente rotti da degli spari che contro di essi vengono indirizzati. Un notevole clangore di spari e di vetri rotti fa da sottofondo a quanto vedono alle pareti gli spettatori, le cui immagini, rispecchiate dai quadri vengono a sparire ogni qual volta avvengono gli spari e le relative rotture degli stessi. A volte dentro ai quadri appaioni immagini sacre, che si sovrappongono a quelle dei visitatori. In un'altra sezione si odono ancora spari, ma più diradati nel tempo. Questi provengono da una fitta coltre di fiori coloratissimi, entro alla quale compaiono, ma assai ben mimetizzati, i cecchini, che all'interno vi si muovono, che indossano tute trattate con analoghi motivi floreali. La terza sezione è composta gruppi di manichini a grandezza umana, uno dei quali rappresenta la Pietà di Michelangelo.
Criptico il significato dell'insieme. Ci si sente osservati, si ha la sensazione di correre il pericolo di un attaco di sorpresa. Si avverte d'essere in un mondo di finzioni in cui ciò che appare bello e colorato nasconde in realtà il maggior pericolo. La stessa immagine sacra è stereotipata nell'insolito simulacro cotituito da freddi manichini. Un mondo da cui fuggire a gambe levate!
Venezia, 4 Nov 2011
Enrico Mercatali