Taccuini Internazionali, collateralmente all'articolo di Enrico Mercatali sul design del casalingo italiano nel Distretto dei Laghi, pubblicato questo stesso mese, e a quello su Roberto Sambonet, in preparazione per novembre, propone ai suoi lettori questa bella intervista ad un altro grande protagonista del design piemontese, Giorgio Sambonet.Abbiamo ritenuto utile unire i tre diversi scritti, orientati tutti a mostrare alcunie tra le espressioni più alte del design italiano, intanto perchè marchiati dal "fare piemontese", ma poi anche per essere parte integrante di quella vocazione al costruirsi in fabbrica, come parte integrante di esse, che segna in prima misura l'essenza del suo stesso germinare come idea d'un processo seriale che non potrà che diventare oggetto d'una produzione su vestissima scala.Vi proponiamo questa intervista, avvenuta nell'abitazione stessa del Maestro, anche per la sua intrinseca freschezza e spontaneità d'approccio alla natura del suo oggetto, artistico, sociale ed umano al contempo, che in questo, e di questo, Eliana Frontini ha saputo offrirne il tratto più vero.
GIORGIO SAMBONET
Una intervista esclusiva rilasciata ad Eliana Frontini
“La vera vita, è il ricordo che lasciamo di noi”. Così esordisce Giorgio Sambonet, nell’intervista forse più coinvolgente e bella, davvero bella, che ho fatto nella mia oramai quasi ventennale esperienza di giornalista.
Le domande che gli potrei fare sono moltissime, ad un uomo che ha diretto per 38 anni una delle più grandi fabbriche di casalinghi d’Italia, che, dal 1946 ad oggi, ha pubblicato 285 titoli, per un totale di 10250 pagine stampate, alcuni dei quali editi da case di prestigio come Sperling e Kupfer, Neri Pozza Marietti, Sandro Maria Rosso, Interlinea, San Marco dei Giustiniani.
Entrare in casa di Giorgio Sambonet significa varcare la soglia di un mondo di sogno. Centinaia di opere mi guardano, appese ai muri, appoggiate ovunque, poste perfino sul pavimento. E il grande, grande Giorgio Sambonet comincia a parlare, a raccontare storie, e incanta con le sue favole di vita assolutamente vissuta.
Cosa chiedere a quest’uomo che è designer, direttore d’industria, artista, poeta e chissà quante altre cose? Navighiamo a vista, le domande verranno.“Nel 1956, quando fui nominato amministratore delegato della ditta, questa era dislocata su 500 metri quadri e aveva 120 operai. Quando l’ho lasciata, nel 1985, aveva 360 operai e 14.000 metri quadri di stabilimento” esordisce Giorgio Sambonet.
“Da tre anni vado a dormire alle 20.30, e mi alzo alle 4.30 del mattino” … si direbbe che difenda la sua vecchiaia con l’ironia.
Ecco il primo aneddoto:
“Scalzo e senza mutande, mi metto qui a questo tavolo e realizzo. Scrivo. Creo immagini. Assemblo, ritaglio, incollo. Una mattina non avevo più vinavil. Mi guardo intorno quasi disperato, ma trovo solo un tubetto di super Attak. Ne metterò solo un puntino, mi dissi, intanto aspetto, arriverà giorno. A mia insaputa, però, l’Attak, appoggiato malamente al bordo del tavolo, stava gocciolando sul pavimento. Dopo un quarto d’ora feci per alzarmi, ma niente da fare: l’Attak aveva incollato il mio calcagno al pavimento. Mi sorse spontanea una domanda: cosa fa un cavaliere del lavoro di 84 anni scalzo e senza mutande col calcagno incollato al pavimento?! Non potevo chiamare il 118… poi mi venne in mente una frase di Leonardo, che senz’altro aveva pensato per altri fini, ma che in quel momento mi parve calzasse a pennello: Tu, o Iddio, tutti tuoi beni li concedi per fatica.Allora… faticosamente… tramite microstrappi riuscii a liberarmi il piede… lasciando una bella fetta di pelle attaccata al pavimento… per tre settimane camminai zoppo… applicando una delle più belle invenzioni della mia vita: lo scoccopalato. Camminavo schioccando la lingua a ritmo del passo zoppicante, lasciando che le persone che mi incontravano pensassero ciò che volevano…”
Della sua personalità così sfaccettata, facciamo parlare prima di tutto Sambonet imprenditore. Qual è stato il suo più grande affare?La fornitura dell’albergo presidenziale di Washington : 2500 camere, 7 ristoranti… e io, italiano di Vercelli, chiamato dall’International Hilton a fare un’offerta. Mi venne un’idea geniale. Tra le altre cose, dovevo fornire anche il preventivo per 97 enormi scaldavivande. Si trattava di stabilirne il prezzo. Non sapevo proprio che cifra mettere perché in Europa non esistono. La lasciai in bianco. Era la cosa più importante. Misi… “Lambretta price”, cioè, il prezzo di una Lambretta. Quindici giorni dopo venni convocato dal Presidente dell’Hilton e della TWA.
Come ufficio, aveva una stanzetta vuota come la cella di un monaco. Notai la foto di un yacht sulla sua scrivania. Gli dissi, “di quella barca d’altura ce ne sono in giro tre esemplari. Vedo con piacere che una è sua. Un’altra, è mia”. Ci demmo subito del tu. Parlammo per mezz’ora di oceani, di mari e di pesca… alla fine mi disse: “ma che cosa sei venuto fare qui?”, ed io: “mah, mi avete chiamato, per una questione di prezzi …” e lui, battendosi la mano in fronte, “è vero, il Lambretta price! Perché?” Ed io: “per lasciarti la possibilità di scegliere tra un costo di fabbrica ed un prezzo sdoganato e consegnato al cliente”. E lui: “ah, ma…” ed io: “era il solo modo per arrivare da te!”
Ebbi l’ordine, e il prezzo impostomi era quello più alto.Qualche mese dopo partirono sette vagoni di argenteria da Vercelli, destinazione Washington. Mio padre, con la vecchia madre, andò a vedere partire il convoglio, e quando il treno si mosse, si tolse il cappello, in segno di rispetto.
Le domande che gli potrei fare sono moltissime, ad un uomo che ha diretto per 38 anni una delle più grandi fabbriche di casalinghi d’Italia, che, dal 1946 ad oggi, ha pubblicato 285 titoli, per un totale di 10250 pagine stampate, alcuni dei quali editi da case di prestigio come Sperling e Kupfer, Neri Pozza Marietti, Sandro Maria Rosso, Interlinea, San Marco dei Giustiniani.
Entrare in casa di Giorgio Sambonet significa varcare la soglia di un mondo di sogno. Centinaia di opere mi guardano, appese ai muri, appoggiate ovunque, poste perfino sul pavimento. E il grande, grande Giorgio Sambonet comincia a parlare, a raccontare storie, e incanta con le sue favole di vita assolutamente vissuta.
Cosa chiedere a quest’uomo che è designer, direttore d’industria, artista, poeta e chissà quante altre cose? Navighiamo a vista, le domande verranno.“Nel 1956, quando fui nominato amministratore delegato della ditta, questa era dislocata su 500 metri quadri e aveva 120 operai. Quando l’ho lasciata, nel 1985, aveva 360 operai e 14.000 metri quadri di stabilimento” esordisce Giorgio Sambonet.
“Da tre anni vado a dormire alle 20.30, e mi alzo alle 4.30 del mattino” … si direbbe che difenda la sua vecchiaia con l’ironia.
Ecco il primo aneddoto:
“Scalzo e senza mutande, mi metto qui a questo tavolo e realizzo. Scrivo. Creo immagini. Assemblo, ritaglio, incollo. Una mattina non avevo più vinavil. Mi guardo intorno quasi disperato, ma trovo solo un tubetto di super Attak. Ne metterò solo un puntino, mi dissi, intanto aspetto, arriverà giorno. A mia insaputa, però, l’Attak, appoggiato malamente al bordo del tavolo, stava gocciolando sul pavimento. Dopo un quarto d’ora feci per alzarmi, ma niente da fare: l’Attak aveva incollato il mio calcagno al pavimento. Mi sorse spontanea una domanda: cosa fa un cavaliere del lavoro di 84 anni scalzo e senza mutande col calcagno incollato al pavimento?! Non potevo chiamare il 118… poi mi venne in mente una frase di Leonardo, che senz’altro aveva pensato per altri fini, ma che in quel momento mi parve calzasse a pennello: Tu, o Iddio, tutti tuoi beni li concedi per fatica.Allora… faticosamente… tramite microstrappi riuscii a liberarmi il piede… lasciando una bella fetta di pelle attaccata al pavimento… per tre settimane camminai zoppo… applicando una delle più belle invenzioni della mia vita: lo scoccopalato. Camminavo schioccando la lingua a ritmo del passo zoppicante, lasciando che le persone che mi incontravano pensassero ciò che volevano…”
Della sua personalità così sfaccettata, facciamo parlare prima di tutto Sambonet imprenditore. Qual è stato il suo più grande affare?La fornitura dell’albergo presidenziale di Washington : 2500 camere, 7 ristoranti… e io, italiano di Vercelli, chiamato dall’International Hilton a fare un’offerta. Mi venne un’idea geniale. Tra le altre cose, dovevo fornire anche il preventivo per 97 enormi scaldavivande. Si trattava di stabilirne il prezzo. Non sapevo proprio che cifra mettere perché in Europa non esistono. La lasciai in bianco. Era la cosa più importante. Misi… “Lambretta price”, cioè, il prezzo di una Lambretta. Quindici giorni dopo venni convocato dal Presidente dell’Hilton e della TWA.
Come ufficio, aveva una stanzetta vuota come la cella di un monaco. Notai la foto di un yacht sulla sua scrivania. Gli dissi, “di quella barca d’altura ce ne sono in giro tre esemplari. Vedo con piacere che una è sua. Un’altra, è mia”. Ci demmo subito del tu. Parlammo per mezz’ora di oceani, di mari e di pesca… alla fine mi disse: “ma che cosa sei venuto fare qui?”, ed io: “mah, mi avete chiamato, per una questione di prezzi …” e lui, battendosi la mano in fronte, “è vero, il Lambretta price! Perché?” Ed io: “per lasciarti la possibilità di scegliere tra un costo di fabbrica ed un prezzo sdoganato e consegnato al cliente”. E lui: “ah, ma…” ed io: “era il solo modo per arrivare da te!”
Ebbi l’ordine, e il prezzo impostomi era quello più alto.Qualche mese dopo partirono sette vagoni di argenteria da Vercelli, destinazione Washington. Mio padre, con la vecchia madre, andò a vedere partire il convoglio, e quando il treno si mosse, si tolse il cappello, in segno di rispetto.
Veniamo a Sambonet poeta… il primo premio letterario?
A 18 anni, quando mi iscrissi al Politecnico, feci voto di non scrivere più poesie fino a 46 anni, perché volevo dedicarmi al lavoro. Allo scadere del 46° anno, era il 1967, era un giovedì di festa, la fabbrica era vuota, e io avevo un ginocchio rotto.
La mia vita era la fabbrica. Sentivo le campanelle delle suore … la mia fabbrica era monastica. Ho sempre sostenuto che la faciada l’è di cujon.. Scrissi allora la mia prima poesia, “La fabbrica”. La poesia andò in mano ad un assessore e in capo ad un paio di mesi a Giannessi, critico della Stampa e titolare della cattedra di letteratura a Milano. Vado a casa sua, Giannessi legge per un quarto d’ora, zitto, e io… stavo malissimo! Poi, a gran voce, chiamò la moglie: “Gina portaci due cognac!” e poi disse: “Dio mi fulmini se non è vero, non ci sono in Italia, oggi, dieci poeti come lei”.Un mese dopo, con la poesia religiosa “Non c’è altro Dio” vinsi il premio letterario Lerici Pea. Su 1240 concorrenti per la poesia inedita. Valentino Bompiani mi scrisse un telegramma di congratulazioni: “Bravo, bravissimo”!!!… e con una poesia religiosa!”
A quel tempo vivevo all’Elba, in una catapecchia senz’acqua, in mezzo ai rovi, e non facevo altro che scrivere. Ricevetti un telegramma: “Comunicati vinto Lerici Pea – Stop – Assunto informazioni – Roba seria – puoi accettare – papà”.
Al Castello di Lerici Raphael Alberti mi consegnò l’assegno da un milione, Alberto Lupo recitò la poesia. Mio padre commentò: “Carmina dant panem!” (“allora la poesia può dar da mangiare!” n.d.r.)
Qual è stato il suo primo libro pubblicato?
Giannessi era molto amico di Montale e di Buzzati ed io un giorno gli portai una storia d’amore tra un sasso e una radice, due oggetti che avevo trovato su una spiaggia a Stintino, in Sardegna. Radice e sasso erano incastrati, e io ho scritto due libri, quattordici liriche che il sasso scrive alla radice ed altre quattordici nelle quali la radice risponde al sasso. Quando Montale le lesse, volle scrivere la presentazione. E mi regalò il suo Diario della Versilia, in originale, con i disegni fatti col caffè e col burro cacao, col rossetto, col caffelatte, con quello che trovava… io ero una delle cinque persone che poteva entrare in casa di Montale, in via Bigli, a qualsiasi ora.
E conobbi la Gina, la fantesca di Montale, che voleva sempre parlar di pentole.
In casa di Montale non c’erano libri né quadri, solo portacenere colmi di mozziconi di sigarette. Unica nota di colore, un’upupa imbalsamata sulla testata del letto. Eugenio (ma il suo vero nome era Eusebio!) non parlò mai con me di poesia, tranne una volta. Tutte le mattine mi prendeva a braccetto e voleva che andassimo per i prati. Era vecchio. Ad un certo punto si fermava e si metteva a cantare Verdi o Puccini. Il suo sogno sarebbe stato essere un baritono.
Montale una sera a casa di Neri Pozza, comune editore, ad Asolo, a cena, presenti Andrea Zanzotto e la moglie, a bruciapelo mi chiese: “Cosa pensi della mia poesia?” Risposi… e ebbi fortuna. Ricordavo a memoria alcuni suoi versi: “la mia venuta è testimonianza di un viaggio che scordai. Giuran fede queste mie parole ad un evento impossibile e lo ignorano”. Non parlammo più di poesia, fino a Saint Vincent. Nella sala che ospitava le grandi litografie ricavate dal “Diario della Versilia”, davanti a giornalisti di tutto il mondo, scendendo le scale mi indicò col dito a tutti ed esclamò: “Oh, Sambonet…” e girando lo sguardo sugli astanti, aggiunse: “un poeta d’acciaio inossidabile, gli altri faranno la ruggine”.
Io mi offesi, e, dopo la cena, ero al suo tavolo, assediato dai curiosi, feci buon viso a cattivo gioco, ma da allora non tornai più in via Bigli.
E mio padre, quando seppe del perché, mi disse… “Sei un cretino! Ti ha fatto un grande complimento!” (mio padre pensava a quell’inossidabile… ed io ad un tegame!).
Quando mi nominarono Cavaliere del Lavoro, Cossiga mi disse: “non so se complimentarmi di più con lei per le sue posate o per le sue poesie”.
Giannessi era molto amico di Montale e di Buzzati ed io un giorno gli portai una storia d’amore tra un sasso e una radice, due oggetti che avevo trovato su una spiaggia a Stintino, in Sardegna. Radice e sasso erano incastrati, e io ho scritto due libri, quattordici liriche che il sasso scrive alla radice ed altre quattordici nelle quali la radice risponde al sasso. Quando Montale le lesse, volle scrivere la presentazione. E mi regalò il suo Diario della Versilia, in originale, con i disegni fatti col caffè e col burro cacao, col rossetto, col caffelatte, con quello che trovava… io ero una delle cinque persone che poteva entrare in casa di Montale, in via Bigli, a qualsiasi ora.
E conobbi la Gina, la fantesca di Montale, che voleva sempre parlar di pentole.
In casa di Montale non c’erano libri né quadri, solo portacenere colmi di mozziconi di sigarette. Unica nota di colore, un’upupa imbalsamata sulla testata del letto. Eugenio (ma il suo vero nome era Eusebio!) non parlò mai con me di poesia, tranne una volta. Tutte le mattine mi prendeva a braccetto e voleva che andassimo per i prati. Era vecchio. Ad un certo punto si fermava e si metteva a cantare Verdi o Puccini. Il suo sogno sarebbe stato essere un baritono.
Montale una sera a casa di Neri Pozza, comune editore, ad Asolo, a cena, presenti Andrea Zanzotto e la moglie, a bruciapelo mi chiese: “Cosa pensi della mia poesia?” Risposi… e ebbi fortuna. Ricordavo a memoria alcuni suoi versi: “la mia venuta è testimonianza di un viaggio che scordai. Giuran fede queste mie parole ad un evento impossibile e lo ignorano”. Non parlammo più di poesia, fino a Saint Vincent. Nella sala che ospitava le grandi litografie ricavate dal “Diario della Versilia”, davanti a giornalisti di tutto il mondo, scendendo le scale mi indicò col dito a tutti ed esclamò: “Oh, Sambonet…” e girando lo sguardo sugli astanti, aggiunse: “un poeta d’acciaio inossidabile, gli altri faranno la ruggine”.
Io mi offesi, e, dopo la cena, ero al suo tavolo, assediato dai curiosi, feci buon viso a cattivo gioco, ma da allora non tornai più in via Bigli.
E mio padre, quando seppe del perché, mi disse… “Sei un cretino! Ti ha fatto un grande complimento!” (mio padre pensava a quell’inossidabile… ed io ad un tegame!).
Quando mi nominarono Cavaliere del Lavoro, Cossiga mi disse: “non so se complimentarmi di più con lei per le sue posate o per le sue poesie”.
Sambonet artista. Ci racconta della sua prima mostra?
Era il 1978. Io non avevo mai fatto mostre prima, neanche a Vercelli. Ma ho sempre disegnato.
E’ capitato che dovessi andare in America a presentare i miei prodotti. Prima partimmo mio figlio Giulio ed io, poi saremmo stati raggiunti dai miei collaboratori, era un viaggio di perlustrazione. Arrivammo di domenica, c’era un tempo infame.
Arriva una telefonata dall’Italia, l’aereo con i miei collaboratori, a causa del maltempo, non sarebbe arrivato che martedì. Mio figlio aveva portato due voluminose cartelle di disegni e tempere mie da mostrare – su loro invito – ai nostri amici e clienti americani. Lunedì mattina vuota, gran pioggia.
Che facciamo? Io dissi a mio figlio: “telefona al Guggenheim, e chiedi del direttore”. Mio figlio era stupito. Io insistetti, “telefona, e fatti passare il direttore. Devi dirgli, che, come gli antichi Greci andavano a Roma a far vedere le loro opere, così tuo padre presenterebbe le sue opere al direttore del Guggeheim”. Rispose il vicedirettore, mister Jackson: “Oggi è lunedì, il museo è chiuso” e mio figlio: “papà, lunedì è chiuso, il museo. Propone martedì”, e io: “digli che martedì non possiamo, perché dobbiamo andare in giro a vendere pentole”. “Venite allora oggi alle 2, ma passate dal portone dietro, vi aspetteranno due uscieri”. Ci andammo puntali, ed entrammo nel museo. Si stava allestendo una grande personale di Lucio di Fontana. Mister Jackson guardò i disegni per quaranta muniti, in silenzio… alla fine, esclamò: “E poi, dove andate?” “Ad Atlanta!” – “Atlanta?” e, preso un catalogo della Guggenheim in pochi minuti ci fece di suo pugno una presentazione per la Omny International Gallery, la più importante galleria di Atlanta.
Quella fu la mia prima mostra… durò un mese … ebbe un seguito, un altro mese a Washington… e un altro seguito ancora, al Rockfeller Center di New York, alla Rizzoli Art Gallery. Alla fine di questo itinerario confesso di aver avuto la tentazione di cambiare mestiere: avevo venduto 28 quadri.
I tre libri preferiti
“Alice nel paese delle meraviglie”, per la logica del non senso dietro ad una favola che non è per bambini, “I viaggi di Gulliver”, perché fanno vedere le cose da tutti i punti di vista, da quello della formica a quello del gigante, passando attraverso l’uomo, e “Don Chisciotte”, per l’entusiasmo nelle imprese più pazze e il saper entrare nello spirito divino delle cose, e per il buon senso e la pazienza di Sancho Panza.
Eliana Frontini
L'intervista è già stata pubblicata il 9 gennaio 2009 su "Nella Nebbia, rivista mensile con uno sguardo trasversale sull'arte" edito a Vercelli.