La imminente apertura al pubblico del Museo del Novecento nel Palazzo Arengario di Piazza Duomo segna una tappa di enorme interesse per Milano e le vicende del novecento che in essa ebbero teatro, specie nella sua versione iconica, rappresentata, da un lato, dall'immagine rinnovata e semplificata della interpretazione d'un classicismo architettonico estremizzato e sintetico, laconico e mordente, spettacolare e complesso anche se apparentemente statico e freddo, ma anche dal multicolorismo futurista dinamico ed "elettrico", dal movimentismo fulgido e complesso della nuova arte che marinettianamente vi nasce proprio in Galleria, in mezzo alla sua folla più convulsa.
Marcello Piacentini, 1938 - Il Palazzo della Civiltà Italiana (Colosseo Quadrato)
foto di Enrico Mercatali
Un'architettura che trae spunto dalle tetre periferie operaie ed un vitalismo estetico, colorato e filmico che nella sua pittura si veste coi panni della ricca borghesia imprenditizia che abita i salotti del centro, formano, agli inizi del secolo XX, l'anima di quella Milano che seppe attraversare le tragedie ideologiche di quel secolo per diventare "da bere", dopo gli anni che dal boom economico la seppero trasformare in capitale mondiale del Made in Italy, città dalle mille facce, ove arte e industria, cinema e moda la resero famosa nel mondo.
Furono gli anni, quelli, dei grandi sogni non più realizzati, nei quali, terrorismo e ruberie, scontri ideologici e poteri occulti fecero in modo che tutto si bloccasse. Per oltre quarant'anni il mito novecentista milanese ha germinato soprattutto all'estero ove divenne faro vitale di modernità.
L'Arengario ha assunto, in questo contesto di contraddizioni e di opposte semantiche, un ruolo del tutto particolare, forse anche proprio per la sua collocazione sulla terza punta di un triangolo equilatero che, agli altri angoli, ha il Duomo e il Palazzo Reale. Il suo aspetto severo e spoglio non è mai stato amato dai milanesi, nonostante che essi avessero già digerito altre cosiddette "brutture", tra cui le più indigeste erano la Stazione Centrale di Stacchini e il Palazzo di Giustizia di Piacentini.
Dall'alto: Giovanni Muzio Palazzo della Triennale, 1933 (foto storica),
Palazzo Triennale oggi con la fontana di De Chirico, la Cà Brutta, 1922 (particolare)
Non a caso ancora alla fine degli anni ottanta, proprio nel bel mezzo del periodo milanese più opulento che si chiamo "da bere", Enzo Mari ne propose la demolizione, anzi, ancor peggio, ne propose, in uno dei suoi più brutti progetti, un assai timido "dileggio", demolendone una parte, e trasformando quella restante in una "fettina di torta" che poco sapeva ironizzare, almeno quanto avrebbe fatto il meglio di Bob Venturi, o chi da lui avrebbe sposato le tesi di "Complexity and Contraddiction", seguendone la conseguente "Strada Novissima".
Enzo Mari, plastici e disegni del progetto per piazza del Duomo
(da "Tre Piazze del Duomo" per il recupero e valorizzazione dell'area Duomo-Scala, Arcadia edizioni, 1984)
In questo progetto, uno dei più brutti a firma del designer milanese, si propone la quasi totale demolizione dell'Arengario. Di esso ne sarebbe rimasto in piedi un "simulacro", di tale misera entità in quel contesto, da farne preferire,piuttosto, la sua totale demolizione, la quale a quell'epoca, era ancora da molti auspicata.
Quel progetto ha saputo però rappresentare la testimonianza del disgusto che i milanesi provavano per quell'edificio che, indipendentemente dalle sue "storicità" non ancora totalmente disvelate, non sapeva rendere giustizia al Duomo e all'edificio che il Piermarini fece accanto ad esso per dare ospitalità ai reali in visita nella città.
Eppure De Chirico aveva già da tempo affrontato il tema delle Piazze d'Italia, ed il Colosseo Quadrato era già stato assunto quale "registro" d'una modernità tipicamente italiana, un po' perchè divenuta, per molti, "mussoliniana" nello stile, ma anche perchè oggettivamente ed espressamente mediterranea e solare, nel bianco dei suoi marmi latini, nella pulizia dei lineamenti architettonici, e in una marcatura delle ombre che così netta e meridiana non poteva essere.
Giorgio De Chirico, Piazza d'Italia, 1938
Richiamandosi a De Chirico, Aldo Rossi ne andava consolidando iconicamente, in quegli anni, una nuova consapevolezza collettiva, un modo di riconoscersi e di specchiarsi di tutti nelle proprie origini, in una sorta di memoria collettiva fatta di classicità sospesa e interiorizzata, che della piena solarità romana e mediterranea poco esprimeva però, al Cimitero di Modena o Gallaratese di Milano, più propenso, specie quest'ultimo, ad un periferico sironiano grigiore.
Aldo Rossi, due progetti realizzati, ispirati alla metafisica dechirichiana:
Sopra: stecca residenziale a Milano (Quartiere Gallaratese), 1962 (foto G.Basilico)
Sotto: Cimitero San Cataldo di Modena, 1971
Perfino nel design ci fu un richiamo, da parte d'alcuni, in quegli anni, nella consapevolezza d'un consolidamento ormai avvenuto e maturo, a quelli che già Portaluppi assai sapientemente organizzava nei decori delle abitazioni borghesi, e negli arredi detti "novecentisti" appunto, per il richiamo a quello stile.
Milano, di quei sintagmi, ne è davvero colma. Basterebbe fare un giro nel suo centro, visitandovi i dintorni di piazza San Babila, per visitarvi l'opera di Portaluppi, appunto, o di Giovanni Muzio, da porta Venezia e porta Nuova, fino allo stesso Palazzo della Triennale.
Oggi vediamo tutti con nuovi occhi quell'Arengario che Mari voleva demolire, e al cui solo progetto di demolizione, in fondo, molti plaudivano. Oggi siamo tutti consci che sia stato un bene tenerlo in piedi per fargli rivivere le passate glorie, per renderlo contenitore perfetto d'una storia del Novecento piena di spigolosità e di bellezze, contraddizioni e splendori. Anche se, dobbiamo riconoscere, che il suo restare in piedi non è stato frutto d'una scelta ponderata e saggia, ma solo d'un altro brutto affaire all'Italiana, costituito dal blocco d'ogni iniziativa urbanistica ed edilizia dovuto a Tangentopoli, che tutte le risorse divorava nel privato, non lasciando che briciole alle publiche realizzazioni che, per questo, mai presero il volo.
Anche il design coglie i frammenti d'una tendenza proponendoli al pubblico più vasto:
Enrico Mercatali, "Novecento" - Tavolo scomponibile per Fasem International, 1990,
in legno rifinito "alphatone" in diversi colori e cristallo molato in due strati e pvb
(omaggio al novecentismo prebellico, costruito sui segni d'una tutta milanese romanità, rinato negli interessi
antiquari degli anni '80, testimoniato dai numerosi nuovi sfarzosi negozi d'arredo novecento in città)
L'Arengario oggi non si chiamerà più così e si chiamerà invece "Museo del Novecento". Esso oggi risplende di una nuova luce e potrà ben rappresentare la città di Milano nel mondo, accanto al Duomo e a quel Palazzo Reale che continuerà ad ospitare, come ha già ospitato, mostre temporanee d'alto profilo.
Questo sia d'auspicio per una rapida soluzione anche ad un altro problema annoso della città, riguardante la "Grande Brera", nella quale tutti avremmo voluto tempo fa che si desse il via al bellissimo progetto di James Sterling, pensata e voluta dal rimpianto sovrintendente Franco Russoli nei lontani anni '60.
Ma, con il progetto di Rota per il Museo Novecento (e non certo coi tanti altri altisonanti e sbagliati progetti, tuttora in corso di realizzazione a Milano, quali Milano City o Museo della Moda, Milano sembra riprendere le fila d'un discorso lineare e virtuoso. In questo progetto Rota ha pensato alla città rileggendone col cuore la sua fantastica storia fatta dei momenti epici del moderno che l'hanno plasmata. Così egli ha pensato alla creazione d'un Novecento che comprendesse le esperienze principali della sua costruzione fisica e della sua identità, durante il XX secolo: così egli ha intersecato, entro l'involucro portaluppiano, le visuali che comprendessero le iconiche opere che vi sono custodite all'interno con le parti di città che segnano la sua storia, che dall'interno dei suoi spazi potessero essere viste, dal campanile di San Gottardo alla Torre Velasca, dalla bramantesca San Satiro al primo edificio brutalista di Figini e Pollini, che vi prospetta sul fianco. In tal modo egli ha voluto che l'esperienza d'un novecento agli albori comprendesse quella della città fatta dei suoi passaggi migliori, ovvero dei più visionari, attraverso i quali si leggesse l'essenza d'una città che ha conosciuto, e forse ancora conosce, il profondo senso di una progettualità capace, nel suo farsi, di tessere sempre un'idea di futuro.
Milano, 3 dicembre 2010
Enrico Mercatali