THE MAGAZINE OF THOUGHTS, DREAMS, IMAGES THAT PASS THROUGH EVERY ART OF DOING, SEEING, DISCOVERING

31 January 2013

Eccellenze presenti e "dimenticate" in: "L'età moderna e contemporanea - Novecento, Le arti visive", a cura di Umberto Eco. Ottima sintesi di 700 pagine sulla produzione artistica del XX secolo (di Enrico Mercatali)




Che fine ha fatto il nostro moderno 
P    a    l    l    a    d    i    o 



???


E' con grande interesse che abbiamo letto l'ultimo volume dell'opera "L'età moderna e contemporanea",  edita dalla Biblioteca di "Repubblica-l'Espresso",  dedicato alle Arti visive del  Novecento "Il secolo breve" - Vol. 19, avendo visto dopo averlo appena sfogliato, che trattasi di un'opera dalle notevole qualità sintetiche ma anche critiche.
Tutta l' opera (in 19 volumi) è curata da Umberto Eco, ed il volume in questione, introdotto da Anna Ottavi Cavina, apre con un sommario suddiviso in 3 parti ("I protagonisti", "la Storia" e "Sguardi sul secolo"), che  appare assai ricco e completo, ben selezionato nei nomi dei protagonisti, nei "movimenti," e nelle principali componenti storiche.

Quanto più ci ha attratto, del volume, che peraltro consta di un  ben selezionato apparato d'immagini, sono la ottima documentazione e la profondità del testo, oltre alla selezione dei nomi degli artisti (e degli architetti) qui chiamati a rappresensentare il secolo, a ciascuno dei quali viene dedicato un certo numero di pagine.

Il volume, in tutto, consta di circa 700 pagine, 300 delle quali dedicate ai "protagonisti", altre circa 300 ai "movimenti", e le restanti 100 a "Sguardi sulo secolo", ovvero ad articoli di vario genere, tesi ad inquadrare fattori di particolare ed esemplare importanza, quali ad esempio: "Il quartiere E 42: Il nuovo centro imperiale di Roma", oppure " Architettura e Stato in Unione Sovietica", oppure "I congressi di architettura moderna", od ancora "La forma della memoria: arte e architettura di fronte alla Shoah"



Alcuni dei "Protagonisti" (di "Novecento-arti visive" Vol.19 
facente parte di "L'età moderna e contemporanea", ed. Repubblica-l'Espresso)
ai quali è stato dedicato apposito capitolo, dall'alto: 
Mark Rothko  (di Andrea Morpurgo)
Aldo Rossi  (Pier Vittorio Aureli)
Robert Venturi  (Dorothea Deschermeier)
Giulio Paolini  (Elvira Vannini)
Frank O. Gehry (Giovanni Damiani)
David Hockney  (Elena Fierli)
Francis Bacon  (Andrea Morpurgo)
Renzo Piano  (Francesco Pasquale)


La bontà dell'opera, come sopra dicevamo, a nostro giudizio sta proprio nella qualità dei testi, delle introduzioni (alcune anche a firma di Umberto Eco) e dei capitoli (a forma di vari autori), avendone effettuato confronti con altre opere dello stesso tipo, divulgative quanto questa, mai trovando eguali in precisione di riferimenti, è da ascriversi in particolare a dovizia di dati essenziali, a capacità di sintesi coniugata ad evidenti fattori che denotano specialismo e ampiezza d'orizzonte. Noi stessi, che pratichiamo specialmente la materia architettonica, avendo frequentato da parecchi decenni non soltanto libri e monografie del settore,  saggi critici od altri documenti, ma anche e particolarmente le riviste specializzate italiane e straniere di maggiore risonanza, possiamo dire d'avere guadagnato in conoscenza dalla lettura,  per esempio, di capitoli dedicati a Rem Koolhaas, oppure ad Aldo Rossi, o  a Peter Eisenman.

Di piacevole lettura, nonchè ricchi di particolari non sempre risaputi, sono anche i capitoli dedicati ai protagonisti della scena artistica propriamente detta, tra cui spiccano per interesse quelli dedicati a Mark Rothko, a Costantin Brancusi, a Joseph Beuys, Alberto Giacometti.

In questo volume, che riteniamo di dover consigliare ai nostri lettori per le qualità che fin qui abbiamo elencato, qualcosa ha destato il nostro stupore. Nella prima lettura dell'indice, ma poi anche confermato dalla lettura dìogni pagina, ciò che più ci ha stupito sono le selezioni dei protagonisti,e quindi le numerose importanti omissioni, che non poco pesano nel contesto complessimo. Nomi e protagonisti non citati, argomenti non trattati.
Dobbiamo aggiungere che siamo assolutamente certi che non si sia trattato di dimenticanza o distrazione, dati i presupposti fin troppo chiaramente emersi per ogni piano attraverso il quale l'opera sia stata esaminata. Trattasi perciò di esclusioni volute, calcolate, consapevoli, le quali, in taluni casi, lasciano davvero pensare alla presenza di punti di vista che possano costituire fattori di ribaltamento critico a dir poco "epocale"-
Tra gli artisti che hanno caratterizzato le arti visive del Novecento, non vi sono capitoli dedicati a Salvador Dalì, a Umberto Boccioni, a Vasilij Kandinskij, a Paul Cèzanne, a Robert Rauschemberg, a Bruno Munari, è ciò ci ha stupito avendovi invece notato altri che a nostro giudizio potevano, se non essere ritenuti minori, certamente però almeno d'analogo livello, quali quelli su Lucian Freud, su Lucio Fontana, su Giulio Paolini, solo per fare alcuni nomi tra quelli presenti con loro specifici capitoli.



Alcuni dei "Movimenti" (di "Novecento-arti visive" Vol.19 
di "L'età moderna e contemporanea", ed. Repubblica-l'Espresso)
ai quali è stato dedicato apposito capitolo, dall'alto: 
"Realismo magico" (di Sara Cecchini) - C. Schad
"Razionalismo" (di Giovanna d'Amia) - L. Figini e G. Pollini
"Nuova oggettività"(Daniele Pisani) - G. Grosz
"International Style" (di Giovanni Damiani) - Le Corbusier
"Bauhaus" (di Daniele Pisani) - J. Itten
"Architettura postmoderna"(di Dorothea Dershermeier) - J. Sterling
"Minimalismo"(di Elvira Vannini) - F. Stella
"Decostruttivismo" (di Gabriele Mastrigli) - (D. Libeskind)


L'oggetto di questo nostro articolo infatti è proprio questo,  per il quale vogliamo portare un solo esempio, il quale però è già parzialmente sottinteso nel suo titolo, riguardante la sparizione del nome di un architetto italiano, che francamente ci è parso strano in prima istanza: quello di Vittorio Gregotti. Ma ci siamo poi accorti che altri, come lui, sono spariti, lasciandoci un poco sconcertati: tra gli architetti Oscar Niemeyer, Richard Rogers, Norman Foster, Peter Zumtor, Alvaro Siza, per  non dirne che alcuni.

Il fatto stesso che noi qui si sia così distinto, ed isolato, il nome di Vittorio Gregotti, da ogni altra certo importante assenza nelle pagine del volume "Il Novecento - il secolo breve, Arti visive", per le edizioni di "Repubblica-l'Espresso", lascia ben capire quanto il non-fatto abbia creato in noi un certo sconcerto, e quanto ci abbia costretto a rivedere i nostri parametri di giudizio, ancorchè assai radicati durante i decenni lungo i quali ci siamo formati come architetti e durante i quali abbiamo consolidato i nostri convincimenti critici. E' attorno a tale genere di revisione che vorremmo argomentare nel prosieguo di questo articolo, anche perchè crediamo che la cosa possa interessare quanti, come noi, hanno vissuto una epoca architettonica ed artistica come quella che ci sta alle spalle, almeno da quando l'Università italiana ha subito gli importanti rivolgimenti istituzionali ma anche culturali del 68, e da quando cioè il cuore del secolo XX in termini di autorappresentazione visiva si è andato determinando, ovvero proprio da quando il nostro "personaggio palladiano" ha avviato il suo percorso didattico, critico e professionale.
Per inciso vi informiamo che abbiamo attribuito a Gregotti il soprannome di "moderno Palladio" traendo spunto da uno dei suoi libri didattici, intitolato "Sulle orme del Palladio - ragioni e pratica dell'architettura", nelle quali argomentazioni tutto fa supporre che l'autore non disdegni affatto il parallelo tra se stesso ed il genio architettonico del '500, avendovi fatto apporre in copertina perfino un ritratto di sè, per la matita di Tuttio Pericoli, in abiti rinascimentali, con in mano compassi e pergamene riportanti progetti che sono chiaramente suoi. Trattasi certamente di un banale episodio di narcisismo autoreferenziale. Ma non sta qui il punto del nostro stupore nell'accorgerci della sua totale sparizione dell'elencazione dei "più grandi" dal volume di cui abbiamo parlato in capo all'articolo. Il punto è che noi stessi abbiamo seguito il suo lavoro per lunghi decenni, fin da quando ne fummo discenti e poi apprendisti nel suo studio milanese, convinti estimatori, più che della sua pratica professionale, del quale però ci lasciavano incantati se non altro gli importanti contatti ed i più ancora prestigiosi contratti, della sua pubblicistica, nelle riviste e nel quotidiani, costante e precisa, martellante e onnipresente, peraltro assai "militante", nella direzione d'una pratica fondante legata a regole etiche piuttosto ferree.




Alcuni dei titoli dedicati ai capitoli "Sguardi sul secolo" di "Novecento-arti visive" Vol.19 
di "L'età moderna e contemporanea", ed. Repubblica-l'Espresso, e dei relativi protagonisti, dall'alto: 
"Classicismi moderni"(di Sergio bettini) - L. Kahn
"Architettura e Stato nell'Unione Sovietica" (di Luca Skansi) - K. Mel'nikov
"Arte e politica nella Germania fra le due guerre"(di Andrea Morpurgo) - D. Libeskind
"Quartiere E42. Il nuovo centro imperiale di Roma"(di Dorothea Dershmeier) - M. Piacentini
"La forma della memoria: arte e architettura di fronte alla Shoah" 
(di Elena Pirazzoli) D. Libeskind
"Le città sociali del Novecento" (di Dorothea Dershmeier) - L. Figini e G. Pollini
"Le esposizioni universali" (di Andrea Morpurgo) L. Mies van der Rohe
"Il grattacielo"(di Francesco Ceccarelli) R. Piano
"Design" (di Luca Trevisani) E. Saarinen


Al di là di ogni possibile svista, ci pare che il nome di Vittorio Gregotti, nel volume in questione, vi risulti citato una sola volta, ovvero nel capitolo dedicato a Peter Eisenmann, quando vi si dice che  questi fu invitato alla Biennale veneziana diretta dal "nostro Palladio".

Per tutto e in tutto perciò quella che ritenevamo noi stessi una figura di rilievo internazionale, se non una somma almeno un cardine vi si è sgonfiata fino al punto di sparire.

Come riportato nel risvolto della terza di copertina del citato libro scritto  nel 2000 dall'architetto novarese per Laterza, "Sulle orme del Palladio - ragioni e pratica dell'architettura", il suo sunto biografico così dice: "Vittorio Gregotti svolge il suo lavoro in tutto il mondo. Ha firmato, tra gli altri, progetti a Berlino, Lisbona, Barcellona, Parigi, oltre che in tutta Italia. Ha insegnato in molte facoltà europee ed americane e attualmente è professore presso la facoltà di Architettura di Venezia. E' stato per 14 anni direttore di "Casabella" e ha scritto numerosi libri, l'ultimo dei quali è dedicato al problema dell'identità dell'architettura europea". Non potrebbe essere più ampio e prestigioso il ventaglio culturale e professionale che ne traccia la statura. Oggi vi sarebbero aggiunte le epiche avventure professionali in Cina, ove egli sta realizzando intere città.

Una assenza che a noi è parsa desolante, perchè ci siamo accorti, risvegliandoci un poco dal torpore d'una certa abitudinarietà culturale, non solo che è il nostro paese tutto ad aver perso punti (e quanti, perfino!) nel quadro internazionale degli eventi e dei valori, (a parte alcune importanti eccezioni), ma anche il quadro critico di riferimento, il quale oggi, pur attraverso un'opera di grande divulgazione culturale prodottasi in Italia ("L'età moderna e contempornanea", a cura di Umberto Eco), vede e sà riconoscere quanto il panorama culturale internazionale sia stato oggi totalmente ribaltato nel giro di pochi anni, rispetto a quello di alcuni anni fa, e quanto poco giochi  oggi, ed abbia giocato, il nostro ruolo in esso, perfino nell'ambito di riviste d'alto profilo mondiale quale è stata ed è certamente  "Casabella", da quando ha preso avvio il declino morale e politico del nostro Paese dagli anni di "Tangentopoli".
Anche il nome di Zaha Hadid ci è parso "dimenticato", nel volume di sintesi odierna del lascito novecentesco relativo alle arti visive e l'architettura. Infatti solo un paio di brevissime citazioni. Ad essa però l'onore della copertina: in prima e ultima pagina spiccano infatti le immagini del suo MAXXI, quale simbolo contemporaneo di una architettura che, di tutto il Novecento visivo, sa farsi sintesi olistica.

Enrico Mercatali
Lesa, 31 gennaio 2013

20 January 2013

Grandi capolavori milanesi traslocano. Pietà Rondanini e Quarto Stato, redivivi (di Enrico Mercatali)



Pietà Rondanini e Quarto Stato
opere redivive


Milano cerca più appetibilità
resuscitando intanto le sue eccellenze sepolte
...

Ma occorrerà ripartire dal progetto "Grande Brera-Sterling"
per un riordino complessivo capace di fare centro


In attesa di un Expo che sappia materializzare tutti i sogni che i milanesi hanno fin qui fatto circa le promesse in termini di ripresa economica e di ritrovato benessere che attorno ad esso si sono sentite, tra le grandi opere strutturali che necessariamente e direttamente lo dovranno riguardare, vi si sono annidate altre, certamente meno onerose e meno essenziali, ma altrettanto significative al fine di rinvigorire l'immagine meneghina nel mondo. Sono di segno altamente positivo in tal senso, queste due di cui vi vogliamo parlare, anche se ci rammarichiamo che esempi di tal genere non siano più frequenti in una città che vuole cambiare, che vuol migliorare ed ancor più prosperare ormai da tempo.



Una visione frontale del gruppo marmoreo michelangiolesco della Pietà, l'ultima da lui realizzata. In tale opera, secondo Vittorio Sgarbi, il Maestro esprime le sue profonde meditazioni sull'arte e sull'esistenza, maturate negli anni che precedono la sua morte. Il gruppo è stato acquistato dalla Città di Milano nel 1952 grazie ad una sottoscrizione. Nella fotografia è visibile il semplicissimo sfondo, costituito da una muratura in blocchi, che il BBPR, gruppo di architetti milanese autore, tra l'altro, della Torre Velasca, realizzò quale parte integrante ma non protagonista dei suoi più importanti lasciti teorici e concreti: la ristrutturazione museografica del Museo del Castello di Milano.


Si tratta di due importanti traslochi, quello dellultima Pietà michelangiolesca, ora ancora come la misero nelle sale del Museo del Castello i BBPR, nell'immediato dopoguerra, e quello del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, ora ancora nell'infelicissima posizione che già denunciammo non appena fummo tra i primi recensori dell'apertura del Museo Novecento, nel dicembre del 2010, entro il quale, ad opera dei suoi autori Italo Rota e Fabio Fornasari, prese posto entro un angustissimo e marginalissimo, inappropriato spazio, quello che, tra i quadri novecentisti, rappresenta forse il più eccelso dei simboli cittadini.



Le due opere non potrebbero essere di genere più diverso, ma hanno qualcosa in comune: entrambe appartengono all'eccellenza del mileu artistico pubblico della città, conosciutissime nel mondo, posseggono una fortissima carica attrattiva, ed è una cosa fantastica che finalmente ora le autorità cittadine se ne sia accorte, cercando di correre ai ripari proprio in vista dell'evento milanese del secolo, l'Expo appunto.



Giuseppe Pelizza da Volpedo, il Quarto Stato, 1901, intitolato inizialmente "Il cammino dei lavoratori". Realizzato con tecnica divisionista è opera-simbolo del XX secolo, che rappresenta il contributo che l'artista ha voluto attribuire alle cause socialiste del popolo lavoratore in sciopero. Sotto: un particolare.


La città le vorrebbe ora ricollocare dando loro una più attuale ambientazione, più consona all'importanza loro meritatamente attribuita, e più utile a catturare l'interesse dei suoi visitatori.





Le rispettive storie  già le hanno viste protagonista di vicende d'alto rango, essendo state entrambe oggetto d'attenzione particolare nell'ambito delle fasi d'avvio di due grandissime istituzioni cittadine, sia pure in epoche tanto differenti: per la Pietà di Michelangelo si è trattato di un inserimento nel Museo cittadino del Castello, realizzato per la mano del famoso gruppo di architetti milanesi autori, tra l'altro, della Torre Velasca, i BBPR (Belgioioso, Banfi, Peressutti e Rogers), incaricati nel 1956 del restauro complessivo delle strutture di uno dei suoi più importanti monumenti, entro cui si era scelto di collocare le sue preziose collezioni, d'arte, di armi e di strumenti musicali. 




Il Museo ha rappresentato per più di mezzo secolo un punto di riferimento per la moderna museografia, e la Pietà, pur non evendo avuto in esso una posizione preminente, ne ha ricavato sino ad oggi una degnissima ambientazione, sia pure nello stile, ora un po' datato, dei suoi autori. Giustamente oggi si sente l'esigenza di riconsiderarne una collocazione più propria, più completa e moderna, più visibile e prestigiosa. Oltre ai lavori di restauro in corso, che verranno ultimati entro il 2012, è stato approvato un progetto integrato che, grazie alla rimodulazione dei fondi già stanziati da Cariplo, prevede un riordino delle collezioni storiche e la creazione di nuovi poli artistici entro il Castello, con la valorizzazione di presenze entro le mura sforzesche di alcuni straordinari interpreti della storia dell’arte e della cultura milanese: Michelangelo Buonarroti, Leonardo da Vinci, il Bambaia e il Bramantino. E con la creazione di uno spazio museale completamente dedicato alla Pietà Rondanini”.
Nella "rimodulazione delle linee di indirizzo", approvate dalla Giunta della Città nel 2008, per dare vita a nuovi interventi museografici ed ai nuovi relativi e più moderni servizi al pubblico nel l'area del Castello Sforzesco, con un importante finanziamento della Fondazione Cariplo, verrà completamente rinnovato l’ex Ospedale spagnolo, entro la grande corte restaurata da Luca Beltrami,  già realizzato nel corso del XVI secolo ed utilizzata durante la peste che in quel periodo colpì la città, per ospitare un vero e proprio museo dedicato alla Pietà Rondanini, opera incompiuta del Maestro della Sistina,  alla quale vi lavorò negli ultimi trent’anni di vita, senza mai completarla. Nell'attuale struttura dell'Ospedale spagnolo verranno realizzati appositi laboratori di documentazione e  divulgazione. Inoltre vi si affiancherà una caffetteria e di altre aree destinate a servizi per il pubblico, oggi pressochè inesistenti. In questo quadro la Sala degli Scarlioni, nella quale la Pietà Rondanini è stata ospitata dal '56 ad oggi, entro il Museo del Castello, sarà meglio disponibile per un riassetto dell'intera raccolta della scultura lombarda della prima metà del Cinquecento e particolarmente per dare risalto al suo massimo interprete: Agostino Busti detto il Bambaia, sino ad oggi relegato in posizione dimessa. I lavori, che verranno realizzati con l'impegno di salvaguardare il progetto originario dei BBPR, che resta in ogni caso un importante monumento esso stesso della città – saranno ultimati entro l’estate 2014, al costo complessivo di circa sei milioni di euro.

Per quanto riguarda invece il Quarto Stato si trattaterà soltanto di una correzione, sia pure di non poco conto, dell'errore incorso solo tre anni fa, allorchè la grande tela fu spostata dal Museo d'Arte Moderna di via Palestro entro le mura del nuovo Museo Novecento, realizzato da Italo Rota e  Fabio Fornasari nelle rinnovate sale dell'Ex Arengario di Piazza Duomo. 




Pietà Rondanini di Michelangelo, particolare delle due braccia destre del Cristo,  soluzioni che entrambe l'artista vagliò, cambiando idea durante l'esecuzione dell'opera.


Pur nelle analoghe condizioni d'entrambe le opere, che le vedono entrambe alla ricerca di uno spazio nuovo e più adatto anche alla promozione simbolica della città, i loro destini ancora molto si differenziano tra loro: una, la Pietà del Maestro fiorentino, prima di raggiungere la sede definitiva, i cui lavori sono già stati avviati nell' ex Ospedale spagnolo entro il Castello, dovrà transitare prima nel Panottico di San Vittore, entro il quale vi si tratterà per quasi un anno per mostrarsi parsimoniosamente a groppi di trenta persone per volta, e poi in Duomo dopo assere passato anche per il Palazzo di Giustizia, a partire dal Natale del 2013 fino alla primavera del 2014. In questo periodo si prevede debbano concludersi i lavori per la definitiva collocazione. L'altra, opera, il Quarto Stato, dovrà invece solamente trasferirsi in altra sala, entro il medesimo museo che già la ospita. Abbiamo capito che trattasi di rivoluzionare gli accessi e l'uscita del Museo Novecento, mutando il posizionamento delle entrate e destinando alla immensa tela di Pelizza da Volpedo la più ampia sala del Piano Terra, accanto ai nuovi punti di accesso su Piazzetta Reale, entro la quale finalmente respirerà nuova vita per una visione più ampia,  personale e calibrata, esattamente come noi stessi avevamo proposto già 3 anni fa (vedi Taccuini Internazionali: http://taccuinodicasabella.blogspot.it/2010/12/visita-al-museo-del-novecento-di-milano.html).

In entrambe i casi le collocazioni saranno attente ad ottenere l'auspicato effetto, non solo di una loro più adeguata fruizione da parte del pubblico, ma anche quello di dare loro un risalto del tutto particolare onde far sì che il maggior richiamo non sia dovuto  tanto ai loro rispettivi musei, bensì alla loro univoca e speciale presenza in città, quali massimi esempi artistici dei rispettivi periodi, riuscendo a "catturare" maggiori moltitudini di ospiti, italiani e stranieri, in città, rispetto a quanto sino ad oggi non sia avvenuto.



Odierno atrio di ingresso al Museo del Castello, bellissima opera dei BBPR del 1956. Appare però del tutto insufficiente il complesso dei servizi al museo (book-shop, caffetteria, servizi igienici), a quell'epoca non ancora ritenuto necessario quanto oggi.


Un'opera di risalto ad hoc, dell'opera singola, i cui caratteri la città ha già da anni sperimentato da quando ogni anni mette in mostra, a Palazzo Marino, singoli eccelsi capolavori, come è accaduto ad esempio quest'anno con "Amore e Psiche" (Canova-Gerard). Un veicolo, quest'ultimo, che funziona bene, specie quando l'opera costituisce da sè un potente richiamo. E' quanto avviene a Milano, ad esempio, con l'Ultima Cena leonardesca.



 La facciata del Museo del Novecento in piazza del Duomo, allestito nel 2010 nell'ex Arengario


Ma è anche certo che il risultato complessivo desiderato, d'avere maggiori flussi di turismo anche e soprattutto straniero in città, potrà dirsi raggiunto quando a Milano potrà un giorno dirsi inaugurato il suo più grande progetto d'arte, quello mezzo secolo fa voluto da Franco Russoli, e mai realizzato, quello della Grande Brera. Le grandi risorse necessarie hanno rinviato da sempre il progetto. Ma solo un coraggioso atto di volontà e speranza potrà indurre gli amministratori odierni a creare la rete necessaria per una raccolta di forze. Già James Stirling, nei lontani '70, ne tracciò le linee architettoniche. E' da lì che vorremmo ripartire anche perchè si trattò di un favoloso progetto che potrebbe ancora fare invidia oggi ai vari Max, Maxxi, Mart, che in corsa lo han superato, pur senza essere architetture eccelse, ma restituendo comunque alle loro città gli effetti auspicati con la loro apertura.


Enrico Mercatali
Milano, 19 gennaio 2013

17 January 2013

Canova e Gérard si confrontano su Amore e Psiche, a Milano, Palazzo Marino (di Enrico Mercatali)




Canova  e  Gérard

interpretano

A m o r e     e    P s i c h e



Francois Gérard: Psyché et l'Amour, 1798, olio su tela 183 x 131 cm. Dettaglio



Nella mostra di Palazzo Marino, come di consuetidine da cinque anni consecutivi, i milanesi sono chiamati in questi giorni a valutare da vicino una o due opere di grande calibro, quest'anno due, sapentamente collocate al centro della Sala Alessi, ed invitati ad approfondirne il soggetto, la storia raccontata, il contesto storico,  nonchè le vicende critiche che nel corso dei tempi le hanno accompagnate sino alle più moderne versioni.
Quest'anno il tema è "Amore e Psiche", ben rappresentato da due opere molto famose e pressochè coeve, una di scultura ed una di pittura tra loro perfettamente colloquianti per aver entrambi avvolto  le figure degli amanti in esse raffigurati in un alone di tenero e dolcissimo abbraccio senza tempo, che le rende accessibili al gusto d'ogni epoca e contesto. I loro autori, che sono capisaldi dell'arte del loro tempo,  Antonio Canova e Francois Gérard, vi si sono cimentati forse dando il meglio delle loro sensibilità, contribuendo ad assegnare all'alone favolistico che circonda l'evento rappresentato un ruolo di primo piano rispetto all'esigenza avanzata dalle rispettive committenze. Essi hanno ripreso il tema dell'amore impossibile, tra una bellissima fanciulla, Psiche, appartenente ad una aristocratica stirpe, ed una divinità, Amore, rappresentata da un giovane uomo anch'esso di bell'aspetto.



Antonio Canova, qui sopra: Amore e Psiche stanti, 1797, marmo, Parigi, Musée du Louvre, dettaglio. 


Qui entrambe le opere a confronto: a sinistra il gruppo marmoreo canoviano  "Amore e Psiche", h. 145 cm,  posto sull'originale piedistallo in marmo decorato con ghirlande di fiori e farfalle, 1797.  
A destra: il dipinto di Francois Gérard "Psyché et l'Amour", 1798, olio su tela 183 x 131 cm. 
Entrambe le opere sono conservate a Parigi, presso il  Musée du Louvre, nel quale il dipinto fu subito collocato dopo la morte dell'autore, mentre invece il gruppo marmoreo giunse più tardi, a seguito di diverse traversie




La rappresentazione dell'incontro tra Amore e Psiche, sia nel gruppo marmoreo canoviano, sia nel dipinto gerardiano, entrambe   contestualizzabili nel cuore del Neoclassicismo che domina la scena europea tra Italia Francia a cavallo tra i secoli XVIII e XIX, prende le mosse dalla favola classica d'Apuleio, la quale, sin dai tempi di Raffaello, aveva avuto molta fortuna presso le corti e gli ambienti dell'aristocrazia che assai andava influenzando l'attività artistica non direttamente operativa presso gli ordini religiosi.



Antonio Canova: del gruppo "Amore e Psiche" un dettaglio delle due figure riprese di spalle.


Il tema dell'amore aleggiava ovunque in tali ambienti e raffinatezza e sensualità erano costantemente in cerca di raffigurazioni che appagassero i desideri dei mecenati dell'arte e dei collezionisti in ogni parte del continente. Antonio Canova massimamente si adoperò per soddisfare tali richieste al punto da ripetere fedelmente i soggetti più richiesti, secondo metodi di produzione che potremmo definire proto-seriali nella loro capacità di riprodurre copie e varianti, per i committenti più disparati, come avvenne proprio per "Amore e Psiche", della quale statua esistono ora due esemplari: quello del Louvre, in mostra in questi giorni a Milano, e quello dell'Hermitage di San Pietroburgo "Psiche rianimata dal bacio di Amore", di 11 anni più tardo. Entrambi i gruppi canoviani finirono nella collezione del cognato di Napoleone, il generale Gioachino Murat, che li trasportò in Francia e li espose in occasione di festeggiamenti organizzati in onore del Bonaparte, così rendendoli famosi, dopo essere stati visti ed apprezzati dalla "Parigi bene" della Restaurazione.


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Di entrambe le opere d'analogo soggetto, di Antonio Canova e Francois Gérerd, i dettagli tra loro accostati ne sottolineano la tenera sensualità e l'impalbabile ed etereo erotismo in essi sapientemente diffuso. In essi il piacere della vista si trasforma subito in un piacere per la mente


Francoise Gerard, a differenza dello scultore di Possagno, è artista assai più ufficiale alla corte di Francia. Egli è stato sempre accolto come il "pittore dei re ed il re dei pittori", colui che durante la restaurazione fu a corte il ritrattista ufficiale per eccellenza, prima per Napoleone e poi per Luigi XVIII, e fu adorato proprio per la sua eccellente capacità d'interpretare lo spirito dei suoi tempi, onorando il ruolo che gli era stato assegnato, destinandogli perfino alcuni locali all'interno del Louvre, continuando naturalmente l'opera di quello che era stato considerato la gloria della pittura francese, e del quale fu allievo, Jacques Louis David.




Le sue origini italianissime (nato a Roma da madre italiana, mentre il padre svolgeva il suo compito di amministratore del cardinale de Bernis, ambasciatore di Francia presso la santa sede, assieme alla sua passione per l'antico, lo rendono, non solo coevo, ma anche assimilabile al Canova, nell'impatto e la forte influenza che le rispettive arti ebbero sull'arte neoclassica in generale e sull'impulso che questa ebbe specialmente in Francia. Alla sua morte fu naturale che le sue opere passassero subito tra le raccolte del museo che lo aveva ospitato, specialmente dopo che esse passarono al vaglio delle grandi esposizioni che lo videro primeggiare ai Salons del 1802 e del 1808 e che lo resero famoso presso tutto il pubblico e la critica.



Antonio Canova, "Amore e Psiche", qui sopra due ulteriori dettagli nei quali viene messa in evidenza con risalti di luce, la lavorazione finale "a lucido" dei corpi, resi assai simili alla morbidezza dei modelli veri.


Entrambi gli artisti si accostarono al tema trattato dalla novella raccontata da Apuleio, dell'amore adolescenziale, per il grande interesse che esso aveva assunto presso il pubblico. Non solo presso le corti, ma anche e soprattutto presso il collezionismo borghese già assai sviluppato negli anni a cavallo del secolo, l'idea classica di bellezza andava sovrapponendosi a quella più naturalistica di un raffinato erotismo, anch'esso tratto da storie mitologiche, ma raccontato attraverso un uso delle nudità talvolta voyeuristico ed esplicitamente allusivo. La bellezza dei corpi, vista sotto questa luce, aveva attratto il collezionismo scultoreo e pittorico fin dall'epoca di Raffaello (ricordiamo i Borghese e l'Ermafrodito, del quale già queste pagine si occuparono tempo fa), ma ebbe un momento di rilancio proprio in questi anni: basti pensare ad artisti, peraltro ricordati nell'ambito degli apparati documentati alla mostra di cui stiamo parlando, quali Francois-Edouard Picot, Pierre Narcisse Guérin, Pierre-Paul Prud'hon, Pompeo Batoni, Jean-Baptiste Regnault, Jean Broc, e dallo stesso Jean-Baptiste-Dominique Ingres, che ebbe un ruolo di primo piano in quesgli anni nella determinazione del gusto diffuso del pubblico. Ma naturalmente ricordiamo anche, come sono state ricordate e immesse nel catalogo della mostra, quali naturali continuità di tale approccio, le nudità femminili così esplicitamente esibite, come simbolo stesso di bellezza e sensualità: La "Maya desnuda" di Francisco Goya, e quindi l' "Olympia" di Edouard Manet. Noi stessi qui sotto riportiamo, cogliendo il suggerimento fatto dagli stessi curatori del catalogo, l'"Amore e Psiche" dipinto da Edvard Munch nel 1907.




Edvard Munch, "Amore e Psiche", 1907, olio su tela 119,5 x 99 cm, Oslo, The Munch Museum


Grande successo di pubblico fin dai primi giorni. Curatela di Valeria Merlini e Daniela Storti. Progetto di allestimento di Studio Greci Architettura.
Prima e dopo la mostra apparati iconografici e interviste introducono e concludono il percorso.

Enrico Mercatali
Milano, 18 dicembre 2012