THE MAGAZINE OF THOUGHTS, DREAMS, IMAGES THAT PASS THROUGH EVERY ART OF DOING, SEEING, DISCOVERING

09 January 2012

Architetture autostradali: icone mute del boom economico italiano o documento ancora stimolante per nuovi progetti di crescita? - di Enrico Mercatali





Nel mito dell'Italia che cresce


Architetture autostradali 
tra anni Cinquanta e Settanta


di  Enrico Mercatali




Tra i primi Autogrill italiani di Pavesi questo, sull'autostrada Milano-Torino presso Veveri (Novara), è stato realizzato su progetto dell'architetto Angelo Bianchetti nel 1962. La snellezza della struttura, veicolo pubblicitario di Pavesi ed icona della rinascita economica italiana, è sinonomo di modernità ed eleganza. L'idea forte di tale tipologia è proprio quella dell'attraversamento a ponte dell'infrastruttura, capace di consentire, durante un momento di sosta per il pranzo, uno sguardo tranquillo e compiaciuto sulla "velocità", ovvero sull'idea guida del nascente progresso economico del Paese



E' uscito da poco nelle librerie un interessante studio, corredato da foto d'epoca e da bei disegni d'architettura, intitolato "Architetture autostradali in Italia. Progetto e costruzione negli edifici per l'assistenza ai viaggiatori" firmato da Laura Greco, per le edizioni di Gangelmi, Roma. L'autrice è una ricercatrice dell'Università della Calabria, fresca di studi. Per compiere questo studio si è avvalsa di una amplissima documentazione d'archivio, avviando una ricerca il cui scopo, fin dalle originarie intenzioni, è stato quello di descrivere la nascita e lo sviluppo di un fenomeno architettonico di grande vitalità ed entusiastiche mire,  perfettamente corrispondente alla febbre emergente nell'intero Paese causato dal boom economico.



Il primo Autogrill italiano di Pavesi, sull'autostrada del Sole, presso Fiorenzuola d'Arda (Lodi), realizzato su progetto dell'architetto Angelo Bianchetti nel 1959


Lo studio assume il fenomeno come uno dei primi esempi di tipica creatività Italiana, capace di marchiare, nell'immaginario collettivo di italiani e stranieri in visita turistica nel nostro Paese, l'Italian Stile, sia come vitale modo di concepire la crescita, sia come modo di dare ad essa una forma riconoscibile. E' infatti da un attento studio tipologico dei primi manufatti architettonici realizzati a fianco o a cavallo delle nuove autostrade italiane, per l'assistenza ai viaggiatori, che l'autrice rivela una originalità tutta italiana nel dare soluzione alle nuove funzioni emergenti, ed una specifica estetica ad essa collegata, che non ha riscontro in altri paesi europei ed extraeuropei.



Nella foto in alto l'architetto Angelo Bianchetti (1911-94, laurea in architettura presso il Politecnico di Milano del 1934) e Mario Pavesi, titolare dell'omonima azienda alimentare italiana che ha promosso, con grande slancio e dovizia di mezzi, la nascita di numerosi Autogrill,  lungo le autostrade italiane, tra la fine degli anni Cinquanta e il 1970.
Nella foto sotto l'architetto Angelo Bianchetti all'Esposizione Universale di Parigi, nel 1937, in compagnia di Le Corbusier




Le due tipologie più utilizzate quali luoghi di ristoro per i viaggiatori sono a padiglione, posto lateralmente all'asse stradale, presso le stazioni di rifornimento del carburante, oppure a ponte. Esse propongono soluzioni innovative sia sotto il profilo tecnico che per il lessico compositivo adottato, il quale assume di doversi imporre quale nuovo parametro interpretativo del paesaggio in forme capaci di nuova ed efficace attrazione. Il primo, che fu quello nato presso la stazione di Vivera, sull'Autostrada Milano Torino, e poi successivamente molti altri di tali manufatti, nacquero dalla mente di Pavesi, industriale del biscotto italiano e dalla matita dell'architetto Angelo Bianchetti. 




Le due strutture segnaletiche, in acciaio, che Angelo Bianchetti realizzò per Pavesi, la prima sull'Autostrada Milano Laghi a Lainate, del 1958, la seconda al passo dei Giovi sull'Autostrada Milano Genova, del 1959. In entrambe l'ardita struttura è funzione esclusiva della evidenziazione ed elevazione in quota, del marchio aziendale, totalmente disgiunta dalla struttura di base dell'edificio. In esse la componente luminosa gioca un ruolo importante anche la notte, per creare buona visibilità da lontano ed anche stupore nell'automibilista, autorappresentandosi, e ben rappresentando la modernità ardita ed elegante dello styling italiano





Si trattò di una struttura a ponte realizzata in cemento armato ed elementi prefabbricati, che fu capace di reinventare un normale luogo di ristorazione facendo sì che il nastro autostradale diventasse la parte emergente del paesaggio durante la sosta. Un'altra soluzione di grande efficacia promozionale fu quella rappresentata ancora oggi dalla innovativa ed ardita struttura metallica presso Lainate-Milano, sull'Autostrada dei Laghi, la quale, dopo due anni dalla sua costruzione, venne pubblicata sulle pagine di Life per mostrare anche all'America quanto ampio fosse il grande balzo economico dell'Italia, e quanto nuovo fosse lo stile che lo stava rappresentando.





Autogrill Pavesi sull'autostrada della Liguria di Ponente, presso Varazze. Anche questo progetto del 1960  è da attribuire ad Angelo Bianchetti.



Entrambe le strutture qui sopra rappresentate sono dell'architetto Bianchetti per Pavesi. Entrambe con tipologia a ponte, in alto Feronia presso Roma, del 1964, e in basso Montepulciano (Siena), del 1967


Il libro della Greco, che ha avuto il merito di riportare in superficie un tema importante che ha caratterizzato il fare italiano nel momento di massima crescita economica,tema forse dimenticato nonostante che sotto agli autogrill a ponte che vi vengono nominati (e che qui in parte riproduciamo) ci passiamo quasi tutti i giorni, ha anche quello di entrare nel vivo del modo tipicamente italiano di affrontare le tematiche tecniche, essendo esso costituito da una grande quantità di fotografie, disegni, progetti, dettagli tecnici. Esso, nella sua forse primaria intenzione, dice quanto peculiare sia quello specifico modo di lavorare italiano, che ha reso grande, proprio negli anni del boom, la sua architettura ed il suo design, costituito dal suo approccio empirico al particolare costruttivo, al modo di lavorare di ogni singola parte nel tutto, che troveremo applicato anche molto tempo dopo.




Autogrill realizzato tra ilo 1961 e il 1966 per Motta da Pierluigi Nervi e Melchiorre Bega, a Limena (Padova). La struttura realizzata è integralmente in cemento armato gettato in opera con quattro pilastri a forma variabile sui quali si appoggia la travatura a ponte portante il solaio del ristorante. Le dimensioni in pianta della costruzione sono 16x72 m; la luce massima tra i pilastri di sostegno del ponte è di 40 m; l'altezza libera, misurata tra il piano dell'autostrada e la struttura del ponte, è variabile da un minimo di 7,30 m in corrispondenza degli appoggi ad un massimo di 8,30 m in mezzeria. Realizzato dalla Società Ingg. Nervi & Bartoli.


Autogrill realizzato da Carlo Casati tra il 1961 e il 1964, sulla autostrada del Sole a Dorno (Pavia)



I progettisti che lavorarono a tali manufatti, prevalentemente nella decade degli anni Sessanta, tra cui ricordiamo Angelo Bianchetti, Pierluigi Nervi, Melchiorre Bega, Carlo Casati, Edoardo Gellner, Roberto Baciocchi ed altri, tutti architetti piuttosto lontani dal dibattito intellettuale svoltosi in quegli anni non tanto perchè privi d'argomenti quanto perchè impegnati a tempo pieno nelle realizzazioni di cui stiamo parlando, hanno lasciato un forte segno nel panorama del nostro Paese, non tanto sotto il profilo strettamente architettonico, quanto per l'impatto che ha avuto sul costume degli italiani, e sull'evolversi del sistema mobilità, che ha saputo perfino sorpassare certe suggestioni giunteci dalla culla del benessere d'allora, il Nord America.






Esso potrà sembrare oggi ad alcuni discutibile anche per l'impatto talvolta omologante che ha svolto sullo stesso panorama del nostro territorio, e nell'ambiente che lo differenzia e caratterizza, tanto più alla luce delle massicce violenze insediative che su di esso particolarmente negli ultimi anni abbiamo potuto constatare. Ma è interessante peraltro valutare, specie in un momento quale l'attuale, nel quale l'impellente necessità di tornare a crescere è più che mai all'ordine del giorno, quanto tali manufatti abbiano anche saputo esprimere, perfino in termini formali, uno spirito nuovo e una nuova chiave di lettura di ciò che la modernità allora proponeva all'intera comunità nazionale ed agli attori di una industria turistica praticamente ancora ai suoi albori.


E' quindi di grande attualità poter capire quanta parte anche la forma, quale veicolo di nuove nascenti simbologie, abbia svolto in quell'industria che dovrà avviarsi a diventare la prima in un Paese, quale il nostro, che più di ogni altro al mondo ne ha vocazione.


Icone e simboli capaci di stimolare l'immaginario della gente, così promuovendone l'azione. Oggi l'obbiettivo è diverso, forse opposto, ma le dinamiche psicologiche che guidano i dirompenti fenomeni di  crescita restano le stesse.


Enrico Mercatali
Lesa, gennaio 2012
(tutte le foto con didascalia sono foto d'epoca)

06 January 2012

Realismi socialisti - Pittura sovietica 1920-1970. Si conclude la grande mostra romana - di Enrico Mercatali




R E A L I S M I    S O C I A L I S T I
La pittura del socialismo reale dal 1920 al 1970.







Roma, Palazzo delle Esposizioni
11 ottobre 2011 - 8 gennaio 2012



Si conclude in questi giorni il percorso espositivo dei "Realismi socialisti", al Palazzo delle Esposizioni di Roma, che quest'anno ha proposto il duplice tema dell'arte realista e dell'arte sovietica, così riempiendo un vuoto conoscitivo che da tempo chiede di essere affrontato per entrambe i temi, peraltro ricchi di incognite critiche per l'intero panorama del moderno, proprio quando essi si sovrappongono nell'unico filone storico di quanto avvenuto nel cuore della cultura artistica russa del XX secolo, e più  specificatamente relativo all'arte pittorica.


1920-1928



Boris Kustodiev, "Il bolscevico", 1920 - Olio su tela, 101 x 141 cm (Mosca, Galleria Tret'jacov)


Dobbiamo risalire all fine degli anni '80 del secolo scorso per registrare un evento di analoga portata nel nostro paese, una mostra di pittura russa di analogo calibro,  la cui importanza  possa consentirci ora di stabilire un percorso di continuità, e di segnalare episodi di novità, entro il grande e complesso quadro costituito dalla cultura artistica che quel paese ha saputo esprimere lungo tutto l'arco di tempo del moderno, durato un secolo, tra il 1870 e il 1970. Tale evento è stata la grande mostra organizzata al Lingotto di Torino nel 1989 intitolata "Arte Russa e Sovietica, 1870-1930", promossa dal Ministero della cultura dell'URSS, da Fiat, e dall'Associazione Italia-URSS, il cui ricco catalogo sembra costituire la prima puntata d'una serie che si completa ora con quello della mostra in questione, quella organizzata a Roma, nel Palazzo delle Esposizioni, intitolata "Realismi socialisti- Pittura sovietica 1920-1970".





 Aleksandr Deineka, "La difesa di Pietrogrado" 1928, Olio su tela (210x238 cm) - Mosca, Museo Centrale delle Forze Armate



La mostra che si conclude in questi giorni a Roma, e quella lontana mostra di Torino, assieme, consentono di fare non solo un bilancio sui temi che abbiamo citato in premessa, ma anche sull'intero mondo dell'arte figurativa russa che così fortemente ha saputo esprimere, più di quanto non si sia potuto verificare altrove, le contraddizioni intrinseche ai binomi potere e linguaggio, cultura e potere ed ideologia e immagine, i quali, nell'evoluzione della cultura artistica del Moderno, tanta parte hanno  avuto, facendo argomentare, e talvolta ed anche spesso l'un l'altro dissentire, critici e addetti ai lavori, ottenendo che, a tutt'oggi, ancora molti punti interrogativi affollino l'interpretazione della  amplissima documentazione disponibile, e la messe di punti di vista che da essa già è stata tratta.



1928-1936



Samuil Adlivankin, "Uno dei nostri eroi (lavoratore d'assalto)", 1930, Olio su tela (100x120 cm), Mosca Galleria Statale Tret'jakov



Così si avvia infatti, dando prova di quanto è il parere che noi ci siamo fatti, la nota introduttiva al catalogo della mostra romana, per le firme di Matthev Bown, Zelfira Tregulova, ed Evegenija Petrova, curatori: "A tutt'oggi, e due decenni di distanza dal dissolvimento dell'Unione Sovietica, una concordia critica sul movimento culturale noto come "Realismo socialista" è lungi dall'essere stata raggiunta, e le mostre dedicate all'arte dell'epoca di Stalin continuano a provocare reazioni a dir poco contrastanti. Non vi è dubbio che nel contesto della Russia contemporanea tali controversie riflettano i termini di un dibattito ancora aperto sull'esperienza del comunismo di marca sovietica; ma non si tratta solo di questo." 




Kazimir Malevic, "Sportivi", 1930-31, Olio su tela (142x164 cm)
San Pietroburgo Museo Statale Russo
Sotto: "Teste di contadino", 1928-29
San Pietroburgo Museo Statale Russo



Continua così poi la nota introduttiva dei curatori della mostra: "E' piuttosto il modo stesso di considerare l'arte di quell'epoca esclusivamente come espressione di una realtà storico-culturale pervasiva, meccanica emanazione di un modello di esistenza astratto (e strumento per la sua realizzazione), e negarle a priori la possibilità di vedersi riconosciuta la scala che le compete, ovvero quella di un imponente movimento culturale tout court.






Che la figurazione realista sovietica non sia riducibile alla misura di un'isolata corrente artistica, nell'accezione occidentale del termine, è del resto cosa certa: non interessò infatti un ristretto cenacolo di persone accomunate da un medesimo ideale, attive in uno stesso luogo e in un preciso momento, ma si trattò di un fenomeno che coinvolse per decenni il lavoro di migliaia di artisti, impegnandoli capillarmente nel territorio di un impero immenso ed etnicamente composito."



Aleksandr Deineka, "Pausa pranzo nel Donbass", 1935 - olio su tela (188x283 cm)
Riga Museo Nazionale di Arte della Lettonia


Appare chiaro come anche nei curatori della mostra morda la consapevolezza d'una ambiguità di fondo che permane nell'analisi critica della pittura russa, attinente al lungo periodo caratterizzato dalla presenza incombente del pensiero unico al potere, sia pure nelle sue numerosissime versioni intestine ad un dibattito tra gli artisti che mai si è spento. Questa ambiguità, che già emergeva alle origini prerivoluzionarie, in cui lo stesso Kazimir Malevich tentava ancora nel 1915 di sostenere che gli elementi del Suprematismo costituissero la maggior forma possibile di realismo, ben si rivela nell'organizzazione della mostra per periodi ben precisi (che qui riproponiamo a titolo esclusivamente concettuale), all'interno dei quali solo rarissimamente le tematiche affrontate nei dipinti attengono a questioni di carattere psicologico o familiare, a discapito di quelle ufficialmente approvate dagli organismi del potere politico, di carattere sociale, e ancor più storico-sociale. E ciò che appare assai chiaro nello sviluppo della mostra è anche quanto peso dessero tali tematiche ai caratteri e alle espressioni dello stile, sia pure nelle incredibilmente varie e personalissime sigle pittoriche adottate dalle diverse personalità artistiche dei protagonisti, entro il grande alveo del cosiddetto "realismo".



1936-1941




Grigorij Segal, "Guida, maestro e amico (Stalin presiede il II Congresso dei Contadini nel febbraio del 1935)", 1936-37 - Olio su tela (340x260 cm), San Pietroburgo Museo Statale Russo



Continuano, a tal proposito, i curatori della mostra, lasciando intendere che la questione aperta dal realismo fosse proprio quella che più in fondo abbia sotteso i dibattiti che fin dalle origini coinvolgessero gli artisti, e che, a tutt'oggi, ancora coinvolge proprio la critica, nella fase di storicizzazione ormai avviata: "In Russia le risonanze del Realismo socialista sono penetrate perfino in quelle forme d'arte che, in conclusione della sua parabola, ne minarono la struttura fino a demolirlo e a scalzarlo del tutto.




Vasilij Jakovlev, "I cercatori d'oro scrivono al Padre della Grande Costituzione", 1937 (olio su tela, 249 x500 cm), San Pietroburgo, Museo Statale Russo


I riflessi nella cosiddetta arte sovietica non ufficiale o underground sono certamente numerosi e diffusi, (...), mentre gli artisti russi contemporanei continuano a richiamarsi alla sua ereddità nei modi più svariati (...). Il realismo socialista dunque circola nell'aria che l'arte russa contemporanea ancora oggi respira. Volendo mutuare l'aggettivo usato da Ekaterina Degot nel suo saggio dedicato alle sfide che un curatore di mostre sul Realismo socialista si trova dinnanzi, potremmo ricondurre il fenomeno ai termini di una patologia e arrivare a definirlo "incurabile"."



Arkadij Plastov, "Il bagno dei cavalli", 1938 (Olio su tela 201x300 cm)
San Pietroburgo, Museo Statale Russo


Centrano il segno i curatori, quando, nella loro nota introduttiva, individuano il centro del problema, che vorrebbe totalmente destituire il carattere stesso di tutta l'arte del Realismo socialista di quell'autonomia che viene normalmente riconosciuta a tutta l'arte occidentale da che essa esiste, ma che ancora non se ne assume totalmente il peso cercando di esplorare anche quanto sostiene la tesi opposta, che vede nel Realismo socialista un a forma eccezionalmente autonoma d'espressione, ascrivibile quasi per intero all' essenza stessa dell'ispirazione artistica e della sensibilità naturale nata in terra russa. Il ragionamento è questo: "Pur avendo rappresentato (o forse proprio per il fatto di aver rappresentato) l'unica compiuta alternativa a quanto di formalistico e di solipsistico vi è stato nel movimento moderno e alla tabula rasa da esso predicata, il realismo socialista viene pressochè ignorato dalle storie complessive dell'arte contemporanea esistenti.

1941-1945



Aleksandr Deineka, "L'asso abbattuto", 1943 (olio su tela 283x188 cm)
San Pietroburgo, Museo Statae Russo


E, laddove sia stato preso in considerazione nel quadro della storia dell'arte "accreditata", esso è stato semmai annoverato come l'esperienza che mise fine alle ardite sperimentazioni dell'avanguardia russa negli anni dieci e venti del secolo scorso, ovvero non come fenomeno estetico in quanto tale, ma solo in quanto emanazione di un regime totalitario" (...).



Michail Chmel'ko, "Il trionfo del popolo vittorioso, 1949 (olio su tela 289x559 cm)
Mosca, Galleria Statale Tret'jakov



Studi autorevoli hanno messo in luce come negli anni della guerra fredda la CIA e altri servizi abbiano tatticamente sostenuto e promosso l'astrattismo nei termini di una naturale espressione dei principi occidentali di libertà e di aujtodeterminazione dell'individuo. La lettura invalsa in Occidente, inoltre, decontestualizzava il realismo socialista, isolandolo dai fenomeni paralleli ad esso affini, come i diffusi "ritorni all'ordine" nell'arte eujropea degli anni venti, e l'ispirazione socialista rintracciabile nella pittura americana dei "Dirthy Thirties" e nei progetti della Works Progress Administration, la grande agenzia pubblicitaria del New Deal."




Aleksandr Laktionov, "Lettera dal fronte", 1962, ma che replica fedelmente una composizione del 1947 (olio su tela 225x152 cm)
San Pietroburgo, Museo Statale Russo


Nella mostra figurano grandi sale entro i grandi spazi del Palazzo romano delle Esposizioni, suddivisi  in periodi storici. In queste si snodano percorsi assai classicamente concepiti entro cui trionfano le principali tele del Realismo sovietico. Quadri enormi entro cornici smisurate. Che il realismo imponesse anche regole dimensionali. Oppure che tali smisuratezze fossero anch'esse un tributo dell'artista al grandioso compito che a lui spettava, d'essere tramite tra un credo e un popolo che di esso si abbeverava? Certo è che alla pittura il regime assegnava un ruolo e certo è anche che tanto più ad esso l'artista si adeguava tanto più a quel rango esso poteva pensare d'appartenere. In fondo è il ruolo a cui storicamente in ogni epoca la grande arte del passato seppe adeguarsi. E non per questo quesgli artisti dovettero sentirsi sminuiti o destituiti della propria individualità artistica.


1945-1954



Vasilij Jakovlev, "Disputa sull'arte", 1946 (olio su tela  345x412 cm)
San Pietroburgo, Museo Statale Russo


Ma, anche in ciò la mostra ha saputo ben rappresentare quanto realmente potessero valere, in senso propriamente artistico, le grandi rappresentazioni eroiche del regime ed anche quanto modesti ma importanti anche fossero i più ristretti angoli di espressione personale che l'artista, specie negli ultimi periodi, ha saputo ricavare, anche a racconti più intimi e individuali, a episodi di introspezione psicologica, ancorchè legati ai primi dallo stile  d'una pittura schiettamente realista e talvolta perfino molto ricca di personalissime sigle di espressione, capaci di dire molto chiaramente l'autentico valore del suo autore.



Arkadij Plastov, "Vanno a votare" 1947 (olio su tela 221x295 cm)
Mosca, galleria Statale Tret'jakov


Indipendentemente perciò dalla capacità critica di far decantare oggi la vera natura delle singole sigle artistiche, sapendo dire quanto fossero autenticamente liberi i modi espressivi adottati dalle singole personalità che all'arte sovietica hanno dato corpo e assai spesso anche vera vita, e quanto invece di imposto dal regime, che spesso s'è rivelato capace di imporre il "realismo" come imprescindibile marchio d'esistenza dell'artista nel contesto culturale dominato in modo onnivoro dalla mano longa del potere. Al di là di questo limite che la critica odierna continua ad avvertire sappiamo però anche oggi con certezza dare il giusto peso critico e storico ai grandi interpreti della realtà russa del periodo sovietico, riconoscendo in Aleksandr Deineka, in Arkadij Plastov, in Vasilij Jakovlev, in Gelij Korzev,  di Viktor Popkov, in Dmitrij Zilinskij la forza di autentici maestri d'arte.




Andrej Myl'nikov, "Sui campi di pace" 1950 (olio su tela 200x400 cm)
San Pietroburgo, Museo Statale Russo


Nella loro pittura, nelle diverse forme con le quali essa si manifesta, essi hanno dato vita ad autentici capolavori, capaci di raccontare ed interpretare le storie di uomini e donne, talvolta drammatiche, altre volte festose e vitali, altre volte ancora intimamente passionali, d'una umanità interamente vissuta dentro a quella d'un paese denso di  tradizioni e di slanci al futuro, di forti contraddizioni e di potente sentimentali partecipazione.



1954-1964



Vladimir Gavrilov, "Una giornata fresca" 1958 (olio su tela 99x173 cm)
Mosca, galleria Statale Tret'jakov


Ma è anche vero quanto ancora quanto, in tal senso affermano i curatori della mostra: "Uno dei problemi che il considerare il Realismo socialista semplicemente come un fenomeno di dirigismo culturale ha comportato, è l'aver perso completamente di vista la questione della qualità col risultato di rendere un grave torto agli artisti con lo'ignorarne in toto gli orientamenti creativi individuali. In tal senso ilo paradigma totalitaristico è in fondamentale contraddizione con le impressioni stimolanti che i migliori lavori della pittura del realismo socialista suscitano nel pubblico. Obiettivo primario della mostra è dunque quello di tentare di individuare, e sottoporre al pubblico per il suo giudizio, i picchi di qualità raggiunti dai singoli artisti in questa lunga stagione, dedicando una attenzione speciale alle opere di Aleksandr Deineka, Arkadij Plastov, Gelij Korzev e Viktor Popkov. Ciò nell'intento di confutare una volta per tutte l'idea di un Realismo socialista stilisticamente monolitico. 





Gelij Korzev, "Comunisti" (trittico) 1957-60. Da sinistra: "Atelier operaio", "Rialzando la bandiera", "Internazionale". Sotto: Il pannello centrale "Rialzando la bandiera".
San Pietroburgo Museo Statale Russo.




A considerare l'evoluzione del Realismo socialista anche soltanto nell'arco del suo sviluppo in epoca staliniana (vale a dire dal 1928 al 1953), risultano facilmente distinguibili tutte e tre le fasi artistiche - arcaica, classica e barocca - che i critici come Heinrich Wolfflin hanno individuato e indicato quale sequenza necessariamente ricorrente nella storia dell'arte.



Viktor Popkov, "Costruttori di Bratsk", 1960 (olio su tela 183x302 cm)
Mosca, Galleria Statale Tret'jakov


Negli anni trenta in Unione Sovietica venne elaborato un preciso modello di grande quadro tematico ispirato alla vita contemporanea che si poneva come discendente diretto, forse l'ultimo, delle realizzazioni monumentali che dal Rinascimento al XIX secolo furono create grazie alla committenza di papi, sovrani e grandi mecenati. Il ricorso al termine "continuità", così come in generale il rifarsi a una tradizione universale consacrata da secoli di storia dell'arte, è stato riconosciuto negli anni sovietici come attitudine assolutamente positiva, importante proprio dal punto di vista della sua attualità, secondo una visione della disciplina che presupponeva un elevato grado di formazione, una assoluta padronanza del disegno e della composizione, ampia conoscenza del repertorio iconografico classico e, infine, un orizzonte linguistico necessariamente figurativo (...)


1964-1970




Gelij Kozev, "Addio", dalla serie "Bruciati dal fuoco di guerra", 1967 (olio su tela 200x200 cm)
San Pietroburgo, Museo Statale Russo


Del resto non poche opere dell'epoca staliniana, anche quelle più eccentriche del periodo postbellico, rappresentate nella mostra romana da "Disputa sull'arte" di Vasilij Jakovlev (1946), rivelano il profondo dominio della storia dell'arte degli artisti sovietici. Anche sotto Stalin i richiami alla tradizione si spinsero ben oltre l'idea di classicità sancita dall'estetica marxista-leninista. In modo più o meno spontaneo, molti artisti sovietici attinsero elementi anche dall'iconografia cristiana, interpretandola ed in tal modo caricando i loro lavori di contenuti e significati ulteriori. La lettera dal fronte, di Aleksandr Laktionov (del 1962, ma che replica fedelmente una composizione del 1947) rappresenta ad esempio una variazione sul tema della Buona Novella, simboleggiato dalla luce quasi divina che inonda tutto il quadro."




Viktor Popkov, "Canto del Nord", 1968 (olio su tela 169x283 cm)
Mosca, Galleria Statale Tret'jacov


I realismi socialisti, come giustamente recita il titolo della mostra, sono numerosi, diversi tra loro e talvolta perfino antitetici, specie quando, come nel periodo poststaliniano, affiorano esempi di figuratività intenta a indagare più aspetti dell'uomo che della società. Emergono in quella circostanza tratti di stile (che qualcuno, come accaduto ad Alberto Arbasino (vedi "Surrealismo socialista" in Village "la Repubblica" di venerdì 8 gennaio 2012), potrebbe scambiare per un "pessimo sottoprodotto di Chagall" l'opera "I Geologi" di Nikonov, o comunque  cattive imitazioni quelle di artisti russi che avrebbero fatto di artisti occidentali, capaci di mostrarsi come estranee al filone imposto dalle regole di regime. "La mostra tuttavia", continuano i curatori, "si estende oltre i limiti cronologici dell'epoca staliniana, e porta all'attenzione del grande pubblico internazionale una selezione di opere assai più ampia.



Dmitrij Zilinskij, Ginnasti dell'URSS, 1964-65 (tempera e acrilico su cartone, 268x216 cm)
San Pietroburgo Museo Statale Russo
Sotto due dettagli dello stesso quadro






In risposta al dibattito ideologico del momento, il protorealismo socialista degli anni venti del secolo scorso generò opere diversissime tra di loro, una varietà rappresentata nelle mostra dalla presenza di artisti come Boris Kustodiev, Pavel Filonov, Kazimir Malevic e Aleksandr Samochvalov. Negli anni cinquanta, Gelij Kozev avrebbe elaborato la sua proposta di un'arte materialistica a sfondo civile, ispirata al cinema del neorealismo italiano. E negli anni sessanta artisti come Dimitrij Zilinkij e Viktor Popov avrebbero guardato all'arte del Quattrocento italiano alla ricerca non solo di nuove suggestioni stilistiche, ma anche di un a nuova spiritualità."

Richiamiamo l'attenzione del pubblico sul fatto che, contemporaneamente alla mostra sui "Realismi socialisti", nella grande sede romana del Palazzo delle Esposizioni, si svolgeva un'altra mostra riguardante la produzione artistica in URSS, quella su Aleksandr Rodcenko: "300 opere tra fotografie originali, fotomontaggi e stampe vintage".

Crediamo che fare pittura sia stata, e sia ancora cosa diversa che fare fotografia e arti grafiche, e che tale differenza si accentui ove esiste un regime politico in grado di condizionare la produzione artistica  pura, come è accaduto nella Russia sovietica. In effetti visitando questa seconda mostra si incontra, attraversando l'opera artistica del grande grafico e fotografo russo, un'arte che appare assai più "aperta" della prima, libera nell'uso del linguaggio e dei segni propri d'un utilizzo mediatico di quanto non sia stato nel vedere quadri ad olio, uno accanto all'altro. Ci sembrava quasi, mettendo a confronto schizzi di progetto, grafiche anni trenta ed anni cinquanta, fotografie e soprattutto fotomontaggi (dei quali Rodcenko è stato precursore), d'essere spettatori ancora proprio di quell'arte modernista, arditamente libera e fresca, della quale gli artisti russi prerivoluzionari e immediatamente postrivoluzionari furono grandi creatori e precursori, prima che lo stalinismo li mettesse all'indice, o ne piegasse radicalmente l'indole alle logiche del potere.

Roma, dicembre 2011
Enrico Mercatali

02 January 2012

Modernità e tradizione delle pixel-uova nelle installazioni veneziane di Oksana Mas - bilancio di Biennale Arte 2011




Istallazioni veneziane di Oksana Mas
- nel bilancio di Biennale Arte 2011 -







Tra modernità e tradizione, le pixel-uova dell'artista di Odessa ripropongono il ruolo della grande pittura del passato

 

di  Enrico Mercatali

(fotografie di Enriuco Mercatali)



Oksana Mas, particolari della installazione veneziana presentata in Biennale, dal titolo "Post-vs-Proto-reinassance", il cui riferimento iconografico è l'opera dei fratelli Van Eyck "Il polittico di Gand", presentata - a cura di Achille Bonito Oliva e Oleksiy Rogotchenko, facenti parte del Padiglione ucraino realizzato nella Chiesa di San Fantin e di fronte alla chiesa di San Stae.  L'intera opera monumentale, lunga 134 e alta 92 metri, è composta da 3.640.000 uova di legno. Qui, sopra al titolo, uno dei due grandi pannelli a San Stae. Sotto il titolo una veduta del Canal Grande di fronte a San Stae, ed un dettaglio del volto del "Cristo Redentore", a San Fantin.

L'installazione di Oksana Mas dal titolo "Post-vs-Proto-reinassance", presentata - a cura di Achille Bonito Oliva e Oleksiy Rogotchenko - alla Biennale di Venezia, nel Padiglione ucraino realizzato nella Chiesa di San Fantin, è la sezione di un'opera monumentale, lunga 134 e alta 92 metri, composta da 3.640.000 uova di legno.

Il riferimento iconografico è l'opera dei fratelli Van Eyck, artisti protorinascimentali che hanno dipinto "I giardini del paradiso" per una celebre pala d'altare nella città fiamminga di Gand. Le uova realizzano una vera e propria architettura che ricorda la struttura di un mosaico i cui singoli tasselli sono costituiti dal tatuaggio iconografico sulle uova. Qui arte antica e moderna si fondono in un'immagine che contiene storia dei peccati e desiderio di riscatto, speranza per il futuro e desiderio di purezza.



Oksana Mas, uno scorcio delle "pixel-uova" di uno dei pannelli in San Stae



Nella Chiesa veneziana di San Fantin l'installazione interloquisce idealmente con lo spazio sacro nel quale è inserita: a seconda della distanza l'opera si presenta allo spettatore scomponendosi, come in un file digitale di "uova-pixel", in immagini diverse, ognuna rappresentandosi nelle diverse letture che l'artista ha previsto. La contemplazione dell'opera di Oksana Mas è una forma di iniziazione, che, nei diversi modi in cui si esplica il destino dell'uomo (che nella tradizione popolare emerge quale significato-simbolo delle uova dipinte, indirizza verso una nuova vita, una vita totalmente piena.
Oksana Mas lavora da molti anni nel recupero della sfera come forma geometrica perfetta capace di contenere dentro di sé un principio di unità universale. L'artista parte dall'usanza popolare ucraina dei "krashenki", uova di legno coperte da tradizionali decorazioni per la Pasqua. Per la realizzazione di questa grande installazione, l'artista ha fatto dipingere le uova, incarnazione dell'oggetto sferico, a migliaia di persone: carcerate, intellettuali e soggetti di professione ed estrazione sociale diverse, di quarantadue paesi del territorio ucraino, per poi assemblarle nel proprio studio sino a ricostruire su enorme scala alcuni dettagli simbolici desunto dalla pala di Gand.

Simbolo di vita, rinascita, rinnovamento fin dall’antichità, l’uovo è uno degli elementi scelti dall’artista di Odessa per comporre ed elaborare un progetto complesso che coinvolge centinaia di persone. Aristofane racconta il mito dell’origine degli dei descrivendo così la nascita di Eros: “Nel seno sconfinato di Erebo, la Notte dalle ali di tenebra generò per prima un uovo pieno di vento. Col volgere delle stagioni, da questo sbocciò Eros, il fiore del desiderio” (Aristofane, Gli Uccelli).

La simbologia dell’uovo, cara anche al mondo orientale, si ritrova poi anche nella Pasqua cristiana, a partire dall’episodio di Maddalena e Tiberio, per diffondersi poi, come usanza devozionale, soprattutto in area greco-ortodossa, e quindi in Ucraina, dove le uova dipinte offerte come dono nel periodo pasquale si chiamano krashenki.




Oksana Mas, la installazione veneziana presentata in Biennale, dal titolo "Post-vs-Proto-reinassance" (dettagli dell'opera dei fratelli Van Eyck "Il polittico di Gand" che ne è riferimento iconografico), posta di ronte alla chiesa di San Stae



La "scoletta dei battioro", centro di antiche e preziose produzioni artigianali in stile veneziano, di fianco a San Stae, fa da sfondo alla mega installazione di Oksana Mas posta di fronte all'omonima chiesa


Il lavoro dell'artista di Odessa prende avvio da un capolavoro di Jan Van Eyck, conservato nella chiesa di San Bavone a Gand: il Polittico dell’Agnello Mistico. Costituita da 12 tavole dipinte ad olio, l’opera, eseguita nella prima metà del Quattrocento, presenta un’iconografia estremamente articolata legata al tema della Redenzione. Molto avvincente è la storia delle vicissitudini che videro il polittico al centro di grande interesse da parte di mercanti e sovrani; persino Adolf Hitler lo fece portare in Germania, fu poi fortunatamente restituito al Belgio al termine del secondo conflitto mondiale.





Due immagini del Polittico poste dall'artista alla base dell'installazione a San Stae., così da illustrare i particolari assunti dal grande dipinto nella redazione dell'opera attuale. Il Polittico dell'Agnello Mistico, o Polittico di Gand, è considerata l'opera più importante di Jan van Eick (e del misterioso fratello Hubert van Eick), dipinta tra il 1426 e il 1432 per la chiesa di San Bavone a Gand, dove a tutt'oggi è collocata. La monumentale opera consiste in un polittico ad ante apribili, costituita da dodici pannelli di legno di quercia, otto dei quali sono dipinti anche sul lato posteriore, in maniera da essere visibili anche quando il polittico è chiuso. I pannelli sono stati dipinti ad olio in misure totali di 258 x 375 cm.
Sull'iscrizione in cornice vi sono le informazioni principali. In essa si riporta come il nome di  Huubertus Eeyck, quale pittore che ha dato avvio all'opera, completato dal fratello Jan, su incarico di Josse Vijd, che glielo affidò il 6 maggio, mentre alcune lettere in rosso, se lette come cifre romane, compongono la data 1432. Dalla lastra tombale di Hubert, nella stessa chiesa, si sa che egli morì nel 1426, ma questa figura ha assunto contorni leggendari, nell'impossibilità di distinguere la sua mano "maio quo nemo repertus" da quella di Jan, che invece è ben documentato. La mancanza di opere certe di Hubert ha infatti impedito di trovare risposte soddisfacenti alla questione della sua attribuzione. La critica sembra oggi propensa ad attribuire a Hubert la concezione ed in parte l'esecuzione della tavola con l'Adorazione e delle tre tavole sovrastanti, mentre tutto il resto venne eseguito da van Eyck che vi lavorò a fasi alterne; ciò spiegherebbe l'evidente carattere di disomogeneità tra i vari scomparti, che per essere pienamente apprezzati devono essere analizzati singolarmente.
La collocazione nell'angusta cappella di Josse Vijd non era forse il luogo di destinazione originario e, come suggerirebbero alcune discrepanze compositive, la pala venne acquistata dal Vijd solo quando era completata per metà, facendo adattare quello che era stato pensato per un altro committente e un'altra collocazione. Durer descrisse l'opera come "immensamente preziosa e stupendamente bella".
Il polittico, sebbene oggi si trovi nello stesso luogo per cui venne dipinto, ha subito nel tempo varie vicissitudini. Smontato e spostato più volte, nel 1781 vennero ridipinti e spostati in sagrestia i "troppo conturbanti" nudi di Adamo e Eva.
Nel 1816 alcuni dei pannelli laterali vennero comprati dall'inglese Edward Solly, e poi alienati al re di Prussia. Durante la prima guerra mondiale altri pannelli vennero sottratti dalla cattedrale di Gand, ma con il Trattato di Versailles tutti gli scomparti, anche quelli legalmente acquistati da Solly, vennero restituiti al Belgio per contribuire al risarcimento che la Germania doveva versare agli stati vittoriosi. Con l'inizio del nuovo conflitto, nel 1940, il Belgio decise di inviare in via preventiva il polittico in Vaticano, dove sarebbe stato al sicuro, ma l'arrivo della notizia della sigla dell'Asse Roma-Berlino arrivò durante il trasporto, per cui il polittico venne provvisoriamente ricoverato in un museo locale sui Pirenei francesi. Nel 1942 il dipinto venne sequestrato da Hitler e destinato a un castello in Baviera, anche se poi, per ragioni di sicurezza, venne nascosto in una miniera di sale. Ritrovato dagli Americani, fu restituito al Belgio alla fine della guerra. 

Il polittico è costituito da 12 pannelli, disposti su due registri, uno superiore e uno inferiore. Il tema iconografico del polittico è quello della Redenzione, con un prologo terreno (gli sportelli esterni) e la conclusione nelle scene dei beati in paradiso nei pannelli interni.

Il registro inferiore mostra al centro il grande pannello dell'Adorazione dell'Agnello Mistico, dove in una ampio paesaggio si trova su una collinetta l'altare con l'Agnello simbolo di Cristo, adorato da una schiera di angeli, mentre la Colonba dello Spirito Santo irradia i raggi solari della Grazie divina, sotto l'altare si vede la Fontana della Vita ed attorno ad essa ed all'altare si trovano quattro fitti gruppi di adoratori: a sinistra in basso i pagani e gli scrittori ebrei, a destra i papi e i santi uomini; in alto spuntano invece i gruppi dei martiri uomini a sinistra (con in prima fila gli appartenenti al clero) e le martiri a destra. L'impostazione di questo pannello è di sapore più arcaico, con gruppi sovrapposti su un unico piano ascendente, al posto di disposizioni più naturali e conformi alla natura del paesaggio, come negli altri sportelli; per questo la scena è attribuita di solito a Hubert.
Ai lati di questo grande pannello centrale si trovano due scomparti per lato con altri gruppi di adoratori, composto in un paesaggio che riprende spazialmente lo sfondo del pannello centrale. Da sinistra si incontrano: i Buoni Giudici, i Cavalieri di Cristo, poi gli Eremiti e i Pellegrini. Il numero quattro richiama i quattro angoli della Terra, da cui proverrebbero i santi e beati venuti ad adorare l'Agnello.
Quando il polittico è chiuso su questo registro si trovano dipinte le statue vivenmti di San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista, mentre ai lati si trovano i due committenti inginocchiati, Joos Vijdt e Lysbette Borluut.

Il pannello centrale del registro superiore, di altezza maggiore, mostra una figura maschile barbuta, assisa su un grande trono, coronato da archi a tutto sesto che riflettono la forma tradizionale dei polittico gotici, divisi in pannelli cuspidati, con in testa una tiara e scettro. Questa figura è oggetto di varie interpretazioni, per alcuni studiosi rappresenta Dio Padre, per altri Cristo Re e una terza interpretazione ne vedrebbe rappresentata la Trinità. Accanto a lui, sullo stesso pannello ma divisi da cornici, si trovano la Vergine Maria e Giovanni evangelista. Anche queste figure sono attribuite a Hubert, per via dei panneggi abbondanti e rigidi, a fronte di fondi appiattiti, anche se alcuni attribuiscono la stesura del colore a Jan.
I due pannelli laterali successivi, con la forma ad arco che copre esattamente i troni laterali, mostrano due gruppi di angeli musicanti. Infine gli ultimi due pannelli, a forma di semilunette, riporatano Adamo  ed Eva nudi entro nicchie dipinte, sormontati da sue scene dipinte a grisaille del Sacrificio di Caino e Abele e dell'Uccisione di Abele. Adamo ed Eva sono le figure di congiunzione tra esterno e interno, poiché essi sono i responsabili della venuta del Redentore, per lavare le colpe del Peccato Originale.

Sul retro delle ante, che si vedono quando il polittico è chiuso, si trova l'Annunciazione, che si svolge in una stanza architettonicamente definita con precisione, e nelle lunette due profeti (ai lati) Zaccaria e Michea e due sibille (nelle semilunette centrali). La stanza dell'Annunciazione è resa realisticamente grazie all'uso dell'unificazione spaziale di tutto il registro superiore, tramite linee ortogonali convergenti e tramite la presenza uniforme della luce sulle varie superfici. Grandissimo virtuosismo illusionistico è la proiezione delle ombre dei montanti dei pannelli sul pavimento della stanza, calibrata secondo la luce della finestra che naturalmente illumina la cappella.
In quest'opera compaiono quelli che divennero i caratteri tipici della pittura di van Eyck: naturalismo analitico, uso di colori luminosi, cura per la resa del paesaggio e grande lirismo, tutti elementi che si ripresenteranno anche nei dipinti eseguiti a pochi anni di distanza dal polittico di Gand.
Non è chiara la ragione per cui nei pannelli si usino scale di rappresentazione diverse, in particolare, nel lato interno, tra registro superiore e inferiore. La solenne monumentalità delle figure superiori contrasta con i paesaggi distesi e brulicanti di figure in azione nella parte inferiore, che farebbe quasi pensare a una monumentale predella.
Nel complesso comunque non si può parlare di disomogeneità eccessivamente marcate, infatti i colori, la luce e le composizioni spaziali risultano nel complesso sufficientemente unificate e l'altissima qualità pittorica del polittico mette in secondo piano anche i problemi attributivi.
La tecnica del colore a olio, perfezionata proprio da van Eyck e ripresa dai suoi seguaci, permise la creazione di effetti di luce e di resa delle superfici mai viste prima: siccome i colori asciugavano molto lentamente era possibile procedere a successive velature, cioè strati di colore traslucidi e trasparenti, che rendevano le figure brillanti e lucide, permettendo di definire la diversa consistenza delle superfici fin nei più minuti particolari. La luce fredda e analitica è l'elemento che unifica e rende solenne e immobile tutta la scena, delineando in maniera "non selettiva" sia l'infinitamente piccolo che l'infinitamente grande. Vengono sfruttate più fonti luminose, che moltiplicano le ombre e i rilessi, permettendo di definire con acutezza le diverse superfici: dei tessuti ai gioielli, dagli elementi vegetali al cielo terso.
In quest'opera, e nelle opere fiamminghe in generale, lo spettatore è incluso illusoriamente nello spazio della rappresentazione, tramite alcuni accorgimenti quali l'uso di una linea dell'orizzonte più alta, che fa sembrare l'ambiente "avvolgente", come se fosse in procinto di rovesciarsi su chi lo guarda.


“Nel seno sconfinato di Erebo, la Notte dalle ali di tenebra generò per prima un uovo pieno di vento. Col volgere delle stagioni, da questo sbocciò Eros, il fiore del desiderio” (Aristofane, Gli Uccelli) (foto di repertorio)